Il terremoto è tornato e al sollevarsi della terra ha corrisposto puntualmente l’emersione della fragilità della nostra società. Il terremoto non ci piace perchè è cambiamento, trasformazione, e noi siamo una società che ha costruito con presunzione, e contro natura, la sua apparente solidità su ciò che ha sempre considerato certezze: la famiglia, la casa, il conto corrente, il lavoro, l’auto, il campanile.
Un tempo, quando l’uomo viveva a stretto contatto con la natura ed era considerato “incivile” e “arretrato”, il terremoto non faceva paura e nemmeno morti. Oggi che viviamo in una società “civile” e “progredita” viviamo nel terrore e muoriamo schiacciati come formiche. Gli uomini primitivi poggiavano l’orecchio sul terreno per percepirne le vibrazioni più lontane, conoscevano i ritmi della terra, ne avvertivano il battito del cuore. L’arroganza umana e l’illusione di poter dominare la natura, col tempo, hanno prodotto di tutto per disconnetterci dal suolo terrestre: scarpe, letti, abitazioni di più piani, aerei, stazioni spaziali. La nostra arroganza è arrivata al punto tale da considerarci i custodi del pianeta, quelli in grado di determinarne la fine. Sento ambientalisti affermare che dobbiamo salvare il pianeta, non consci del fatto che il pianeta si salverà comunque, gli unici a soccombere eventualmente saremmo noi esseri umani, quasi sempre per stupidità.
Tutto intorno a noi è in continuo movimento ma noi non vogliamo accettare questa verità. Trascorriamo la vita a costruire certezze, ad evitare gli imprevisti, a vivere al riparo dalla realtà e dalla natura. Ci sono interi comuni nel nostro paese in perfette condizioni strutturali, con le case perfettamente integre e ricche di comfort, abitate da gente morta, mentre ci sono villaggi di capanne e paglia, nei paesi meno industrializzati del nostro, dove la gente è viva e felice.
La vita è come un fiume, in alcuni tratti scorre lentamente in altri più velocemente, in altri ancora forma delle rapide o si getta nel vuoto a formare una cascata. Ma noi non abbiamo alcuna voglia di farci trascinare dalla corrente, abbiamo paura, siamo alla ricerca di una pozza stagnante, a bordo fiume, dove proliferano le zanzare e le rane, dove sistemarci e costruire quella che chiamiamo vita. La gente evoca il cambiamento ma, in realtà, non ha alcuna intenzione di cambiare, teme il cambiamento perchè è scomodo, difficile, impegnativo.
Quando succedono disastri sentiamo persone affermare “abbiamo perso tutto” e quel tutto è quasi sempre qualcosa di materiale, perchè la parte spirituale di noi (quando c’è) non può essere portata via da un capriccio della natura. Quando ciò che è materiale viene portato via reagiamo come i bambini ai quali è stato tolto il giocattolo, piangiamo, ci disperiamo, consideriamo la natura cattiva, la definiamo matrigna, pretendiamo un risarcimento. La maggior parte delle nostre sofferenze nasce dall’attaccamento che abbiamo nei confronti delle cose, delle persone, delle idee. Ci identifichiamo con tutto ciò immaginando di essere tutto ciò.
La terra si muove, si è sempre mossa e continuerà a farlo, è rotonda e gira, che noi lo accettiamo o meno. Così come i popoli alla continua ricerca di un luogo dove stabilirsi. Oggi si muovono solo i popoli disperati, costretti a farlo, con la speranza (a volte l’illusione) di poter un giorno diventare come gli stanziali, quelli che “vivono” nell’agio, nelle pozzanghere del fiume, fino all’arrivo della prossima piena.

Massimiliano Capalbo

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