Ho appena terminato di leggere “Vini di Calabria”, un volumetto che racchiude gli scritti che l’autore, Rosario Branda, direttore di Confindustria Cosenza e Accademico della Cucina Italiana, ha pubblicato per un inserto domenicale del Quotidiano della Calabria sui vini calabresi.
Ne è uscita fuori una piacevole guida ai vini calabresi che sono piaciuti all’autore e che ha ritenuto degni di essere raccolti al suo interno. Dalla lettura di questo volumetto, che presenteremo assieme all’autore domani presso il parco eco-esperienziale Orme nel Parco, ne ho ricavato alcune considerazioni che nulla hanno a che fare col giudizio di merito sulle singole etichette non essendo, il sottoscritto, un intenditore.
La prima considerazione è che, così come in altri settori, anche in quello vitivinicolo per troppo tempo noi calabresi abbiamo ambito all’omologazione, a scimmiottare gli altri, rinnegando e sminuendo le nostre unicità (nel caso del vino i vitigni autoctoni abbandonati a vantaggio di quelli internazionali). Abbiamo preferito scrivere e raccontare la storia degli altri, con le parole degli altri, piuttosto che la nostra con le nostre parole. Salutiamo, dunque, la tendenza alla riscoperta dei vitigni autoctoni come un importante passo nella direzione della competitività e del recupero della propria identità.
Il secondo aspetto, molto importante, è dato dal fatto che il vino non può prescindere dal territorio, dal paesaggio, dalla salubrità dell’ambiente nel quale matura e invecchia. E questo è un tema sul quale i produttori di vino non dovrebbero transigere. Ogni qual volta un pezzo di territorio o di paesaggio viene violentato e sfigurato, da insediamenti urbani o industriali che ne intaccano l’equilibrio naturale dovrebbero scendere sul piede di guerra, ma io in quaranta anni di vita in questa regione non li ho mai visti ne sentiti protestare per la costruzione di una centrale, per la creazione di una discarica, per la sottrazione di territorio alle colture a due passi dai loro vigneti. Li ho visti, al contrario, utilizzare il marketing con nonchalance, nelle fiere o nei loro siti internet, per far credere al consumatore di essere eredi di tradizioni che affondano le proprie radici nella Magna Grecia e nella salubrità dell’ambiente.
Forse non c’è prodotto della terra più rappresentativo di un territorio del vino. Il vino è come una cartina di tornasole dell’autenticità di un territorio. In vino veritas.
La Calabria è un terra straordinaria anche per la coltivazione del vino perchè molto varia, perchè in Calabria esistono tutte le condizioni climatiche e ambientali possibili e il vino si caratterizza a seconda dell’esposizione al sole, al vento, alle brezze marine o montane, al tipo di terreno. In Calabria possono essere prodotti tanti vini diversi, ciascuno con la propria dignità, perchè questa regione è uno scrigno di biodiversità quotidianamente minacciato da quello che viene spacciato come progresso.
Il vino rimanda al Bel Paese, per usare un termine che ci apparteneva, ad uno stile di vita che definirei “sibarita” intendendo con ciò la capacità di godere dei piaceri della vita per la quale gli abitanti dell’antica Sibari erano conosciuti e invidiati. Sorseggiare un buon bicchiere di vino significa soffermarsi, indugiare, su ciò che è piacevole e che vale la pena di essere vissuto.
Quanto il vino oggi è frutto della tecnologia e del marketing e quanto della sapienza e della saggezza degli uomini che lo producono? E’ questa la domanda delle domande che porrò, domani, a Rosario Branda.

Massimiliano Capalbo

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