Quante lacrime di coccodrillo, quanti commenti preoccupati, quante imprecazioni si susseguono in queste settimane di caldo record e di incendi che stanno devastando i nostri territori e non solo. C’è chi se la prende con le istituzioni, chi con i vigili del fuoco, chi con la ‘ndrangheta, chi con i piromani, chi con le cattive abitudini. Sono tanti i capri espiatori di cui, come sempre, andiamo alla ricerca per allontanare da noi le responsabilità. Mai nessuno che se la prenda con l’unico vero responsabile di tutto ciò: se stesso. Da molti anni (l’annus horribilis in Calabria è stato il 2017, 8000 incendi per un totale di 74.965 ettari, praticamente come se fosse andato in fumo l’intero Parco della Sila) non stiamo facendo altro che raccogliere il risultato delle nostre scelte scellerate. La maggior parte di noi ha scelto di vivere in città, nelle grandi metropoli, meglio ancora se lontane dalla Calabria, abbandonando terreni e proprietà che un tempo invece venivano vissuti, coltivati e manutentati, e adesso si stupisce che il risultato finale siano gli incendi o le frane in caso di alluvioni. Dopo questo grande caldo arriveranno e trascineranno a valle tutto, completando l’opera e facendo giustizia della nostra incuria e del nostro disinteresse. Ci siamo vergognati di essere considerati dei contadini, i nostri genitori e i nonni hanno lavorato per allontanarci dalla terra, sono andati dietro le sirene del progresso per farci studiare e farci diventare ingegneri, avvocati, medici, architetti e adesso ci stupiamo se le nostre montagne e le nostre campagne vanno in fumo. La maggior parte dei figli di quelli che si lamentano degli incendi sono emigrati, hanno contribuito allo spopolamento e alla desertificazione del territorio, hanno creato le condizioni perché ciò avvenisse e adesso gridano attraverso i social. Fate un esperimento, se non mi credete, andate al catasto a chiedere le visure catastali di alcuni terreni sparsi nelle campagne calabresi e vi accorgerete che sono abbandonati da decenni, che gli eredi sono un’infinità, che pur di non permettere ad altri di poterli coltivare hanno preferito lasciarli incolti e improduttivi. I nodi stanno venendo al pettine.
Quello che sta accadendo in questa rovente estate del 2021 non è nulla in confronto a quello che ci attende nei prossimi anni, è solo un’anticipazione. Che noi umani ci estingueremo è ormai una certezza, quello che non sappiamo è quando, se si tratterà di decenni o di secoli. Ma quello che mi preoccupa non sarà l’estinzione, ne sono accadute tante nel corso della storia della Terra, questa sarebbe solo una delle tante e probabilmente anche quella più salutare per il pianeta. Quello che mi preoccupa è la qualità della vita che saremo costretti a vivere da qui all’estinzione. Saranno decenni molto difficili i prossimi, caratterizzati da siccità, incendi, carestie, epidemie, guerre. Anche se non ne siamo consapevoli su questo pianeta tutto è connesso, è collegato, ciò che accade in un territorio avrà ripercussioni su un altro, è solo questione di tempo.  Noi invece abbiamo la vista e la memoria corte. A molti la questione ambientale appare un tema emergente negli ultimi anni ma è da almeno due secoli che quelli più consapevoli lanciano allarmi che restano puntualmente inascoltati. Ci accorgeremo del problema idrico quando non uscirà più acqua dal rubinetto (due sindaci calabresi in questi giorni si sono scontrati per questo), di quello alimentare quando i prodotti non compariranno più sugli scaffali del supermercato, di quello energetico quando la benzina non uscirà più dalla pompa del distributore e così via. Noi umani non sappiamo prevedere nulla, sappiamo soltanto reagire a quello che accade e le reazioni, nella storia dell’umanità, hanno creato solo morti e sofferenze. Ed è quello che ci attende. Chi può cominci ad abbandonare le città, a coltivare la terra, a raccogliere l’acqua piovana, a produrre energia in autonomia e lo faccia subito, non c’è più tempo. Lo faccia in rete, assieme ad altri. Meno chiacchiere sui social e meno tempo trascorso davanti alla tv. Usciamo dalla virtualità. Occorre tornare alla realtà altrimenti sarà la realtà a irrompere nelle nostre vite finte, con tutta la verità di cui è portatrice. L’errore più grande che possiamo continuare a fare è delegare la nostra vita ad altri, è credere che ci saranno delle istituzioni che ci tuteleranno e penseranno al nostro benessere. Quello che è accaduto col Covid dovrebbe aver insegnato qualcosa e dovrebbe accendere un campanello d’allarme in tutte le persone intelligenti. Non c’è più tempo. Non dite che non vi avevo avvisato.

Massimiliano Capalbo

Il 25 settembre del 2012, mentre perlustravo il territorio tra Cariati e Scala Coeli, alla ricerca di contenuti per la redazione di una guida turistica per il GAL Sila Greca di Mirto Crosia, mi imbattei in una strana formazione rocciosa immersa nella macchia mediterranea del posto. Rimasi colpito dalla sagoma, molto simile al profilo di un dinosauro, con tanto di occhio e bocca. Sembra sonnecchiare e giocare a nascondino con chi, passando di lì, non riesce a notarlo. Tenni per me quella suggestione, così come tante altre che in questi ultimi 20 anni ho percepito perlustrando in lungo e in largo la Calabria (su 403 comuni ne ho visitati 235, non so quanti politici che si candidano per governarla possono dire di conoscerla come il sottoscritto), per una ragione principale: sapevo che i pochi residenti rimasti non erano pronti a riconoscerla e trasformarla in valore. I social network non erano ancora diventati lo strumento principale di scoperta e di influenza che sono oggi, lo storytelling da realizzare avrebbe richiesto enormi sforzi ed era molto probabile che sarebbero stati fatti invano. Rimasi colpito anche dal borgo di Scala Coeli, una piccola Matera che, a differenza della ben più nota località turistica lucana, preferiva riempire le sue grotte di spazzatura invece che di turisti. Senza contare i ritrovamenti archeologici e la natura rigogliosa che la circondano.
Il grande problema dei calabresi è sempre stato la cecità da cui sono affetti, causata da decenni di assistenzialismo e di narrazioni svianti, che ha sempre impedito loro di vedere le ricchezze che li circondano, di prendere in mano la propria vita e determinare il proprio destino.
A distanza di quasi 10 anni da quel giorno mi capita di leggere un post su Fb di Nicola Abruzzese, un amico che vive in quel territorio e che ha deciso di esplorarlo per conoscerlo e di difenderlo dalla realizzazione di una discarica (Nicola sa che non si può difendere quello che non si conosce), con lo stesso spirito che ha mosso e contraddistinto altri eretici calabresi in questi anni. Nel post annunciava la scoperta di un elefante, o meglio di una montagna a forma di elefante nel suo comune, con tanto di foto. Non ho esitato a inviargli le foto del dinosauro che lui non conosceva e che adesso gli consente di poter immaginare il territorio di Scala Coeli come un parco di giganti naturali, di sculture naturali che potrebbero rappresentare, assieme a tutte le altre attrattive presenti, un’occasione di sviluppo turistico sostenibile.
Nessun territorio può svilupparsi se non c’è un custode, un appassionato, un vedente e un credente, una persona che ha gli occhi per vedere e la forza di credere non solo in quello che c’è già ma anche in quello che potrebbe esserci domani. Io non so se la comunità di Scala Coeli a distanza di 10 anni sia cambiata, ma certamente oggi ha un leader a cui far riferimento che ha deciso di assumersi la responsabilità di cambiare la narrazione di quel territorio e di conseguenza anche il suo destino. Nicola è già un politico, non ha bisogno di candidarsi per diventarlo come molti erroneamente pensano. Perché i politici sono quelli che governano il territorio attraverso la conoscenza, la sapienza e la passione. Deve semplicemente proseguire ad esercitare la sua influenza, il suo potere politico, che deriva principalmente dalla sua capacità di vedere prima degli altri, di raccontare, di ascoltare e di creare sinergie e collaborazioni. E’ così che Scala Coeli può guardare al suo futuro con più fiducia e ottimismo, grazie (e assieme) a Nicola, che è andato a trovare il dinosauro e che adesso sembra dire: “ce ne avete messo a trovarmi!”.

Massimiliano Capalbo

Non è stato eletto da nessuno eppure da due giorni ci sta spiegando come intenderà spendere i 200 miliardi di euro che l’Europa ha deciso di prestarci, in accordo con le multinazionali che ne beneficeranno, cercando di convincerci che si tratta di investimenti volti al miglioramento della nostra vita. Nulla di più falso, ovviamente. Si tratta, il Recovery Plan, della pratica più importante per la quale il sedicente mago è stato imposto al Paese, ma non si limiterà a questo, si occuperà anche di fare le riforme che servono all’Europa (e non all’Italia) per imporre un controllo ancora maggiore sulle nostre vite. Una volta completato il lavoro ci permetterà di tornare a giocare a fare il paese democratico. Un capolavoro di manipolazione delle istituzioni che non era riuscito a nessuno finora, neanche al peggiore dittatore. E’ in atto la più grande imposizione di debito e spartizione di denaro pubblico della storia d’Europa, senza che i cittadini siano stati interpellati, che determinerà i nuovi problemi (probabilmente quelli che faranno traboccare il vaso) con i quali le future generazioni dovranno lottare. Stiamo permettendo che mettano un’enorme ipoteca sulle vite dei nostri figli e nipoti senza battere ciglio.
I media, i principali complici di questa operazione di manipolazione, i cani da compagnia di questi personaggi, non fanno che vomitare cifre. Si parla di enormi quantità di soldi, di aumento della velocità (trasporti, connessioni tecnologiche), di rivoluzioni organizzative, di soluzioni imminenti. E’ incredibile la facilità con cui oggi è possibile prendere in giro la maggioranza delle persone, nonostante la realtà tenti continuamente di sbatterci in faccia le nostre inadeguatezze, incapacità, immaturità, stupidità, fragilità. Siamo convinti che la scienza e la tecnologia risolveranno in qualche modo i nostri problemi, prima o poi, non abbiamo capito che senza un uomo nuovo non può esserci un mondo nuovo.
Non sono trascorsi nemmeno 18 mesi dalla prima ondata della pandemia che ha ridicolizzato le nostre tecnologie, i nostri scienziati, le nostre infrastrutture, i nostri partitici, i nostri economisti, la nostra nazione, venduta fino a febbraio del 2020 come la settima potenza mondiale, che già si apprestano a ricominciare a sognare l’unico mondo che sono capaci di sognare, quello della corsa all’accaparramento di risorse, economiche, umane, naturali. Il nastro del film è stato riavvolto, si ricomincia con nuovi attori, forse, ma con la stessa trama.
Ho sentito un professore universitario calabrese, come l’ex assessore regionale ai trasporti Roberto Musmanno, affermare che l’alta velocità ferroviaria “avrà un impatto straordinario per il nostro territorio…” perché “…nei territori dove l’alta velocità è già stata realizzata, non solo in Italia ma anche negli altri paesi europei, questo ha comportato un aumento del PIL estremamente significativo, oltre 10 punti nell’arco di un decennio, solo per l’infrastruttura“. Chi leggerà affermazioni di questo genere, tra appena 20 anni, non potrà che sorridere o incazzarsi, a seconda delle circostanze in cui la lettura avverrà.
Mi tornano prepotentemente in mente le parole di Tiziano Terzani, parole di saggezza lontane anni luce da quelle che sentiamo pronunciare in questi giorni: “La scienza in Occidente è stata asservita ai grandi interessi economici e messa sull’altare al posto della religione. Così è diventata lei stessa l’oppio dei popoli, con quella sua falsa pretesa di saper prima o poi risolvere tutti i problemi. Viviamo come se questo fosse il solo dei mondi possibili, un mondo che promette sempre una qualche felicità. Una felicità a cui ci avvicineremo con un progresso fatto sostanzialmente di più istruzione (che istruzione!) più benessere e ovviamente più scienza. Alla fine dei conti tutto sembra ridursi ad un problema di organizzazione, di efficienza. Che illusione!
Non scrivo più per convincere qualcuno da tempo. Scrivo perché rimanga traccia, perché un domani, quando i nostri nipoti ci malediranno, possa in qualche modo dimostrare di non essere stato allineato al pensiero unico dominante, di aver tentato di spiegare che si sbagliavano, perché in qualche modo possa essere risparmiato dalle loro imprecazioni.

Massimiliano Capalbo