Tramontato il miraggio della SA-RC come volano di sviluppo della Calabria, visto che non ha prodotto (come si paventava durante la sua realizzazione durata mezzo secolo) alcun cambiamento né in termini di aumento dei flussi turistici (ricordo le polemiche sulle file in autostrada ai caselli) né in termini di crescita della vivacità economica della regione, si è passati a crearne uno nuovo: la SS106 TA-RC definita la “strada della morte”. Perché il nostro vittimismo, la nostra continua ricerca di alibi, ha raggiunto livelli tali che siamo riusciti a trasferire le colpe e le responsabilità degli incidenti provocati da distrazioni, alta velocità e altre disattenzioni umane alla strada. Per alimentare questa narrazione vittimistica è nata anche un’associazione che non perde occasione per farlo attraverso i media. Pare, infatti, che non esistano altri soggetti titolati a parlarne. Perché in Calabria ci si appropria dei temi e ci si autonomina portavoce senza aver ricevuto l’investitura da nessuno. Secondo questa narrazione la nuova SS106 servirà ad impedire che nuovi incidenti possano accadere. Ma chi si è recato sul posto, dove sono in corso i lavori del nuovo tratto, ha potuto constatare, oltre all’ennesima devastazione ambientale e paesaggistica di una delle aree rurali più belle e incontaminate della Calabria, che la nuova strada è appunto una nuova strada, un nuovo tracciato, che non andrà a migliorare quella esistente riducendone la pericolosità ma semplicemente a sovrapporsi, per cui la strada della morte continuerà a mietere vittime anche una volta conclusa la nuova. Avremo, dunque, due strade una della morte e una della devastazione. Nel frattempo, la stessa associazione, è così preoccupata degli incidenti che capitano sulla vecchia strada della morte da aver presentato ben quattro esposti, rispettivamente alle procure della Repubblica di Castrovillari, Crotone, Catanzaro e Reggio Calabria in merito ai sistemi di rilevamento della velocità posti sulla stessa strada, che dovrebbero proprio servire a ridurre gli incidenti (anche se non a norma). Sembra, dunque, che l’obiettivo di questa associazione sia più quello di prendere a pretesto qualsiasi occasione per ricercare visibilità che dare coerenza alle proprie azioni e alle proprie dichiarazioni. Un modo di fare molto diffuso nella nostra regione ma che, in questa vicenda, raggiunge livelli prossimi al paradosso.

Massimiliano Capalbo

Nonostante gli sforzi (direi quasi l’accanimento politico-mediatico) profusi negli ultimi venti anni per accendere i riflettori sulla Calabria come meta turistica, la nostra regione è riuscita a scamparla anche quest’anno. L’assalto non c’è stato, il territorio ne è uscito indenne. Le strade, i ristoranti, i lidi, le spiagge semideserte sono lì a testimoniare il fallimento dell’ennesimo tentativo d’industrializzazione forzata del comparto. Lei osserva distaccata e sorride. Sembra quasi predersi gioco di questi novelli profeti della modernità che pensano di poterla governare osservandola sulle mappe geografiche e di poterla plasmare a proprio uso e consumo, costringendola a prostituirsi culturalmente e mediaticamente attraverso questa o quella kermesse, questo o quel testimonial. Lei li osserva come gli indigeni osservavano i colonialisti appena sbarcati su un territorio a loro sconosciuto ed estraneo, ignari dei rischi che li attendevano.
Se sono arrivata fin qui indenne, se ho resistito per secoli ai terremoti, ai tentativi di unificazione, all’industrializzazione forzata, all’omologazione consumistica, pensate che non possa resistere alla narrazione falsa ed edulcorata che state tentando di attribuirmi da alcuni anni a questa parte? Sembra rispondere a chi si stupisce del suo immobilismo. Ma sta proprio qui il suo valore, nella sua capacità di resistere alle forze idiote della modernità, è questa capacità che l’ha preservata fino ad oggi e che potrà preservarla anche domani in attesa che qualche nuova saggezza riemerga dal caos della stupidità. Solo il silenzio e l’oblio, infatti, potranno riconsegnarla integra alle generazioni (ci auguriamo più consapevoli) che verranno.
La farsa del turismo in Calabria è andata in scena anche quest’anno ma non ha sortito alcun effetto, se non quello di confermare di essere appunto una farsa. L’arrivo degli emigrati da fuori e lo spostamento dei residenti che vanno in ferie crea ogni anno questa illusione. Non può esserci destagionalizzazione se la nostra vita è programmata in questo modo, se facciamo tutti le stesse cose negli stessi giorni, se la nostra esistenza è priva di un pizzico di romanticismo e di curiosità.
Il fenomeno turistico nella nostra regione assomiglia sempre di più agli avvistamenti del mostro di Loch Ness, c’è sempre qualcuno che giura di averlo visto ma quando vai a verificare di persona devi accontentarti di intravedere uno specchio d’acqua in mezzo alla nebbia e continuare a credere che un giorno potrebbe spuntare. E’ questa illusione a convincere ancora molta gente a investire (con i soldi dello stato ovviamente) nella realizzazione di b&b, ristoranti e lidi che funzionano per quindici giorni all’anno e che vengono gestiti tirando a campare tra lavoratori in nero e allacci abusivi. Il miraggio è lì, potenzialmente a portata di mano, ma ogni volta all’arrivo della stagione scompare, in attesa del prossimo avvistamento.
Il silenzio generale che circonda l’ennesimo fallimento sa di complicità, di connivenze, di contributo collettivo al raggiungimento del risultato. Ci hanno creduto e ci credono ancora tutti all’illusione, dai partitici agli imprenditori, dai residenti ai giornalisti, e di fronte all’evidenza non resta loro che tacere e fare finta di nulla. Nell’attesa di trovare l’ennesimo alibi e l’ennesimo capro espiatorio da utilizzare in autunno per giustificare l’ennesimo fallimento e la conseguente ennesima crisi: i cambiamenti climatici, l’inflazione, le infrastrutture, la guerra …

Massimiliano Capalbo

Da alcuni giorni i tg hanno scoperto che c’è un problema siccità. Ma, quando un problema viene trattato dalla tv, vuol dire che è già troppo tardi per fare qualcosa. E’ dovuto emergere un camminamento che porta ad un isolotto sul lago di Garda perché quelli che ancora definiamo giornalisti si accorgessero che stiamo andando verso la siccità. Impegnati come sono, tutti i giorni, a fare da megafono al partitico di turno non si erano accorti che tra un pò, se non piove, non ci sarà più acqua potabile in alcune zone del Nord Italia. Così come non se ne sono accorti i loro amici partitici, impegnati a legiferare in questo periodo per rendersi immuni dal controllo giudiziario e ad inviare armi all’Ucraina. Ed ecco che, come succede per ogni emergenza, la tendenza è quella di andare alla ricerca dell'”esperto” che risolva il problema. In genere i cittadini votano un incapace che l’unica cosa che sa fare è alzare un telefono alla ricerca di uno più o meno capace di lui. E l’esperto di solito è un ingegnere, un tecnico, un manager (che bazzica gli stessi ambienti partitici) cioè una persona che, come il partitico che lo assolda, non ha alcun contatto con la realtà, che ha studiato e che opera attraverso un computer per pianificare soluzioni applicabili ovunque e, soprattutto, in maniera rapida.
Di fronte ad un disastro creato ad arte dall’uomo nel corso ultimi duecento anni, si pretende di adottare soluzioni che, nel giro di pochi anni, possano risolvere il problema. E tra le soluzioni che cominciano a circolare c’è quella della costruzione di invasi artificiali per raccogliere l’acqua piovana. Quello che gli “esperti” non sanno è che si tratta di una delle tecniche adottate in passato che hanno maggiormente contribuito a condurci, assieme ad altre invenzioni geniali simili, nell’emergenza attuale. Perché l’invaso artificiale sottrae enormi quantità di acqua e contribuisce a distruggere l’habitat di esseri umani, animali e piante. Prima che di acqua si avverte una sete di saggezza.
Uno dei massimi esperti mondiali di trasformazione dei deserti in paradiso, Sepp Holzer, afferma: “i progetti delle dighe di sbarramento sono un’espressione dell’idiozia umana“. Holzer è diventato una persona competente perché oltre a non essere andato a scuola si è formato con l’esperienza diretta nella conduzione della sua fattoria in Austria, divenuta oggi una meta di pellegrinaggio per chi vuole imparare a relazionarsi, a coltivare e a vivere in simbiosi con la natura.
A monte dei disastri che abbiamo compiuto fino ad oggi c’è il fatto che l’acqua non è considerata un essere vivente col quale relazionarsi ma, come tutte le cose nella nostra società, una merce con la quale fare affari. Holzer la definisce come il sangue della Terra, ha bisogno di scorrere in una rete capillare e non di essere concentrata in un punto. Da circa due secoli ci siamo avviati verso la desertificazione attraverso una serie di errori come: l’abbandono dell’agricoltura naturale a favore di quella intensiva; l’impiego di concimi chimici e diserbanti; la salinizzazione del terreno dovuta ad un’irrigazione sbagliata (i primi responsabili della desertificazione ed anche i primi a lamentarsi della carenza d’acqua sono proprio quelli che la sprecano quotidianamente, gli agricoltori); lo scavo di pozzi profondi che prosciugano le falde; lo sfruttamento eccessivo a pascolo; il disboscamento selvaggio.
Rinaturalizzare un paesaggio significa restituire al suolo la sua umidità naturale e per farlo non bisogna fare tutto quello che abbiamo fatto negli ultimi due secoli. Gli invasi artificiali non favoriscono il bilancio idrologico ma lo distruggono perché sono sistemi isolati che non si connettono con la natura circostante. Una diga di sbarramento non è costruita secondo le curve di livello ma secondo il progetto di un ingegnere. E’ costituita da un bacino il più profondo possibile in cui l’acqua è concentrata e bloccata con un grande muro di cemento e il suo deflusso non avviene secondo le stagioni e i ritmi naturali ma secondo il fabbisogno umano (acqua ed energia). Drena tutte le risorse idriche del territorio attorno, riducendo le forme di vita, ed è soggetta a forte evaporazione nei mesi più caldi perché l’ampio specchio d’acqua è esposto ai raggi solari. Senza contare che quando è troppo pieno o quando occorre effettuare delle manutenzioni il lago deve essere svuotato con spreco di grandi quantità d’acqua. Altro aspetto non di poco conto è che viene affidato a società esterne (spesso straniere) che si appropriano di un bene comune che appartiene alla collettività per scopi privati.
Un’alternativa agli invasi artificiali sono i bacini di ritenzione, ovvero un paesaggio acquatico composto da più bacini di raccolta in grado di impregnare d’acqua il suolo di un’area molto estesa. Si tratta di numerosi laghetti realizzati tenendo conto delle curve di livello naturali presenti nell’area che, se si ha la capacità di leggere il paesaggio (e forse è tutto qui il problema), non fanno che assecondare il normale deflusso dell’acqua e che possono essere modellati in modo che, in caso di precipitazioni normali, venga immagazzinata la stessa quantità di un invaso artificiale e, in caso di precipitazioni intense, sono in grado di assorbire meglio l’acqua perché sulle loro sponde si può coltivare e la vegetazione cresce più rigogliosa trattenendo l’acqua attraverso radici e humus. Le rive si prestano alla pesca perché, al contrario dei grandi invasi, possiedono vari livelli di profondità dove possono vivere diverse specie di pesci, anfibi e uccelli. Infine, il surplus di acqua può essere tranquillamente utilizzato per produrre energia elettrica.
Un bacino di ritensione idrica richiede il coinvolgimento dei proprietari terrieri ricadenti nell’area ma, soprattutto, un cambio di mentalità e una capacità di dialogo e di sinergia che le istituzioni non possiedono, al contrario di un invaso artificiale che è assimilabile ad una trattativa privata su un bene comune tra ente pubblico e soggetto gestore. Nel primo caso i benefici sarebbero territoriali, l’ecosistema migliorerebbe, i proprietari sarebbero responsabilizzati e coinvolti, si otterrebbero produzioni agricole di qualità e non ci sarebbero emergenze idriche. Nel secondo caso i problemi si accentuerebbero nel lungo periodo ma nel breve periodo l’impresa privata farebbe affari e il partitico raccoglierebbe il consenso delle associazioni di categoria degli agricoltori e non solo. Basta sapere questo per comprendere come andrà a finire.

Massimiliano Capalbo