Ogni anno la stessa storia. Ogni commemorazione lo stesso cliché. Possibile che nessuno si accorga dell’errore di fondo? Possibile che nessuno riesca ad estranearsi dal continuare ad essere partigiano (non nel senso letterale del termine ma figurato) e a mettersi in ascolto dell’altra parte per comprendere? Possibile che nessuno riesca a fermarsi e a riflettere sul perché ogni anno queste commemorazioni siano divisive invece che unificanti? Eppure, se lo facessimo, ci accorgeremmo della ragione fondamentale per cui occorre a tutti i costi evitare di scatenare nuove guerre. Non tanto perché la guerra è brutta e le persone muoiono (che è sicuramente una ragione sufficiente per ripudiarla) ma perché la guerra crea, dopo la sua fine, dei vincitori e dei vinti che non potranno mai riconciliarsi, che non potranno mai raccontare la storia allo stesso modo. I danni peggiori delle guerre, infatti, sono quelli che si generano a guerra terminata e che perdurano nel tempo. Pretendere che i vinti diano ragione ai vincitori o viceversa oppure che ammettano i propri errori è una cosa che non può accadere se, al termine della guerra, non si è compiuto un vero percorso fatto di dialogo, ascolto, comprensione e riconciliazione. Certo, è molto difficile (ma non impossibile, esistono esperienze in Africa di riconciliazione in questo senso) che questo percorso venga compiuto dai protagonisti del conflitto ma le generazioni che li seguiranno hanno il dovere di farlo se vogliono vivere in pace. Il nostro paese non lo ha mai fatto per nessuno dei momenti cruciali della sua storia. Le cose accadono e si procede dritti senza fermarsi mai a riflettere. E’ per questo che, spesso, il clima divisivo post-conflitto rischia di trasformarsi in una nuova guerra futura. Perché, nel frattempo, l’odio, i rancori, i desideri di vendetta covano in attesa dell’occasione giusta per riesplodere. Non esiste “la parte giusta” di cui sentiamo parlare, perché la giustizia non appartiene agli esseri umani, solo la vendetta (camuffata da giustizia) appartiene agli umani. Nessun altro essere vivente presente sul pianeta conosce la vendetta. La giustizia è una prerogativa della natura, perché quando sbagli paghi senza attenuati, sconti di pena o indulti. Se costruisci la tua casa sul fiume la prima alluvione te la porta via, se tagli tutti gli alberi crei il deserto, se inquini l’aria e il cibo ti ammali. E’ tutto molto lineare, consequenziale. E’ solo questione di tempo. Gli esseri umani, invece, non possono esercitare la giustizia perché sono fallibili per definizione e perché non agiscono mai in maniera lineare e prevedibile. Decenni di commemorazioni non sono serviti a nulla, semplicemente perché si è diffusa una narrazione e un identikit del male sbagliati. Non è un caso se oggi assistiamo al ritorno dell’antisemitismo, se i governi assumono atteggiamenti autoritari e se le guerre proseguono raggiungendo livelli di barbarie mai visti prima. Nella migliore delle ipotesi le persone, per sottrarsi a questa contrapposizione, si dimostrano indifferenti. Se in una casa la famiglia non va d’accordo ha poco senso che qualcuno festeggi facendo finta che va tutto bene. Si è raccontato e si continua a raccontare che c’era una parte giusta e una sbagliata, che il mondo si divide in buoni e cattivi, che i buoni hanno dei colori, dei valori, delle idee e i cattivi ne hanno altri. Stupidaggini. Se fai un identikit dell’uomo cattivo oggi e lo diffondi pensando che possa essere sufficiente per riconoscerlo anche domani ti sbagli di grosso. Il mondo cambia e le persone pure. E’ sufficiente cambiarsi di abito per essere irriconoscibili. Ma, soprattutto, cambiare contesto. Non cambiano invece gli schemi e le dinamiche. Ai ragazzi delle scuole non andava e non va raccontato chi era Hitler o Mussolini e come si chiamavano i loro compagni di sterminio. Occorreva e occorre parlare dell’essere umano e delle sue debolezze, delle sue miserie e di uno dei suoi difetti principali: quello di lasciarsi condizionare dal contesto nel quale si trova a vivere e a interagire, ieri come oggi. Occorreva e occorre spiegare che non esistono persone buone o cattive di default ma che chiunque, in determinate condizioni e in determinati contesti, può diventare buono o cattivo e che, quindi, quello che è successo può ripetersi (e si sta ripetendo, ma non lo riconosciamo perché guardiamo ancora la foto dell’identikit di 80 anni fa). Numerosi esperimenti di sociologia e psicologia, anche famosi, lo hanno sempre confermato. Papa Bergoglio, quando andava a visitare le carceri, si domandava “perché loro e non io” consapevole del fatto che è sufficiente nascere nel quartiere sbagliato per prendere una strada invece di un’altra. Invece di continuare a raccontarci come la specie più intelligente e importante del pianeta (la più grande mistificazione che abbiamo mai prodotto) occorreva e occorre procedere con un’operazione di ridimensionamento e di messa in guardia dal lato oscuro dell’essere umano, l’essere più pericoloso in circolazione sul pianeta oggi. Il male non è fuori di noi, è dentro, e ha solo bisogno delle condizioni ideali per uscire fuori. Per sconfiggerlo occorre ribellarsi e resistere, innanzitutto a se stessi e alle proprie paure.

Massimiliano Capalbo

Sono le 12.30 e sono in fila presso uno sportello CUP per effettuare una prenotazione per una visita specialistica per mia madre. Prima di me solo un paio di persone. Quando è il mio turno entro e, ancora prima di sedermi nell’ufficio, la persona che sta dietro lo sportello, un signore dallo sguardo e dalle movenze flemmatiche, mi chiede quante persone ci sono ancora dopo di me. Rispondo nessuna ed esclama: “ah, che giornata oggi!” come per rendermi partecipe delle “fatiche” del suo lavoro.
Consegno l’impegnativa, la guarda e prima ancora di controllare sul computer mi fa: “ah per queste parliamo almeno di novembre, dicembre!” Faccio notare che mia madre ha una certa età e che necessita della visita in tempi ragionevoli. “Cercherò di espandere la ricerca nel raggio della regione” mi fa. Rispondo che non ho alcuna intenzione di sottoporre mia madre a lunghi viaggi ed aggiungo: “lei verifichi che disponibilità c’è in zona, poi se non dovesse esserci, siccome per legge siete tenuti ad erogare il servizio entro 30 giorni per le visite specialistiche, vorrà dire che mia madre andrà a visita da un privato e poi si farà rimborsare le spese dal servizio sanitario.” Al che il funzionario mi risponde: “ah guardi, questo non lo so, però l’ho sentita dire questa cosa, ma non sono sicuro..” Replico: “non si preoccupi, sono sicuro io“. Dopo una breve ricerca sul computer compare una disponibilità, a pochi metri da casa, esattamente a distanza di 30 giorni. Miracolo? Magia? Lascio a voi ogni considerazione. Io la mia ce l’ho da tempo e questo episodio non ha fatto altro che confermarmela.

Massimiliano Capalbo

Quest’anno non farò e non ricambierò gli auguri di Natale in automatico. Men che meno quelli che arriveranno attraverso un qualsiasi medium, social o messaggistica istantanea. Chi lo farà riceverà in risposta questo articolo. Ho deciso di effettuare una specie di sciopero degli auguri, saranno ridotti come le corse dei treni. No, tranquilli, non ho litigato con nessuno, anzi. Forse non sono mai stato in pace con me stesso e con gli altri come in questi ultimi anni. Ma ho deciso di astenermi perché penso sia l’unico modo che ho per costringere gli altri a fermarsi a riflettere anche solo per qualche secondo su questa usanza che è diventata ormai solo un automatismo come tanti. Somiglia molto al “come stai?” che rivolgiamo ai conoscenti quando li incrociamo mentre corriamo al ritmo frenetico della quotidianità. In realtà non ce ne frega niente di come stanno gli altri, è solo un modo di dire. La nostra vita è ormai un riflesso condizionato, ci stiamo abituando a tutto: guerre, violenze, corruzione, menzogne, inquinamento, emergenze, epidemie, tecnosorveglianza, naufragi. Nulla ci colpisce a tal punto da costringerci a fermarci per riflettere o a riconsiderare il nostro percorso, a meno che non si tratti di una disgrazia che tocca direttamente noi o la nostra famiglia. Solo se l’impatto è forte, devastante, allora rimaniamo storditi e siamo costretti a domandarci “perchè proprio a me?” Osservando questo piccolo atto di consapevolezza, chi mi invierà gli auguri non potrà restare indifferente. E quando li farà agli altri sono convinto che ci rifletterà un pò più del solito. Non potrà non farlo, i miei non-auguri sono come l’elefante bianco. Una volta nominato non puoi non pensarci anche se ti dico di non farlo.
Abbiamo perso il rapporto col divino, con ciò che è più grande di noi e governa l’universo, ognuno lo chiami come vuole, poco importa. Per gli antichi il rapporto con la divinità era fondamentale. Prima di affrontare una qualsiasi attività consultavano gli dèi per essere certi di agire con il loro consenso. Il metodo divinatorio più antico era l’osservazione del volo degli uccelli praticato dagli àuguri. I segni che essi interpretavano si chiamavano auspicia. Da qui i nostri auguri e i nostri auspici che però hanno perso senso e significato. Agiamo senza sapere perché, molto più spesso re-agiamo agli stimoli che ci circondano. Quest’anno non cederò alla tentazione dell’automatismo. I miei auguri saranno pochi, selezionati, ma soprattutto fatti di persona guardando negli occhi l’Altro per riconoscere un segno. Provateci anche voi, potrebbe essere l’inizio di un cambiamento e, questo si, un buon auspicio per tutti.

Massimiliano Capalbo