Da alcuni giorni i tg hanno scoperto che c’è un problema siccità. Ma, quando un problema viene trattato dalla tv, vuol dire che è già troppo tardi per fare qualcosa. E’ dovuto emergere un camminamento che porta ad un isolotto sul lago di Garda perché quelli che ancora definiamo giornalisti si accorgessero che stiamo andando verso la siccità. Impegnati come sono, tutti i giorni, a fare da megafono al partitico di turno non si erano accorti che tra un pò, se non piove, non ci sarà più acqua potabile in alcune zone del Nord Italia. Così come non se ne sono accorti i loro amici partitici, impegnati a legiferare in questo periodo per rendersi immuni dal controllo giudiziario e ad inviare armi all’Ucraina. Ed ecco che, come succede per ogni emergenza, la tendenza è quella di andare alla ricerca dell'”esperto” che risolva il problema. In genere i cittadini votano un incapace che l’unica cosa che sa fare è alzare un telefono alla ricerca di uno più o meno capace di lui. E l’esperto di solito è un ingegnere, un tecnico, un manager (che bazzica gli stessi ambienti partitici) cioè una persona che, come il partitico che lo assolda, non ha alcun contatto con la realtà, che ha studiato e che opera attraverso un computer per pianificare soluzioni applicabili ovunque e, soprattutto, in maniera rapida.
Di fronte ad un disastro creato ad arte dall’uomo nel corso ultimi duecento anni, si pretende di adottare soluzioni che, nel giro di pochi anni, possano risolvere il problema. E tra le soluzioni che cominciano a circolare c’è quella della costruzione di invasi artificiali per raccogliere l’acqua piovana. Quello che gli “esperti” non sanno è che si tratta di una delle tecniche adottate in passato che hanno maggiormente contribuito a condurci, assieme ad altre invenzioni geniali simili, nell’emergenza attuale. Perché l’invaso artificiale sottrae enormi quantità di acqua e contribuisce a distruggere l’habitat di esseri umani, animali e piante. Prima che di acqua si avverte una sete di saggezza.
Uno dei massimi esperti mondiali di trasformazione dei deserti in paradiso, Sepp Holzer, afferma: “i progetti delle dighe di sbarramento sono un’espressione dell’idiozia umana“. Holzer è diventato una persona competente perché oltre a non essere andato a scuola si è formato con l’esperienza diretta nella conduzione della sua fattoria in Austria, divenuta oggi una meta di pellegrinaggio per chi vuole imparare a relazionarsi, a coltivare e a vivere in simbiosi con la natura.
A monte dei disastri che abbiamo compiuto fino ad oggi c’è il fatto che l’acqua non è considerata un essere vivente col quale relazionarsi ma, come tutte le cose nella nostra società, una merce con la quale fare affari. Holzer la definisce come il sangue della Terra, ha bisogno di scorrere in una rete capillare e non di essere concentrata in un punto. Da circa due secoli ci siamo avviati verso la desertificazione attraverso una serie di errori come: l’abbandono dell’agricoltura naturale a favore di quella intensiva; l’impiego di concimi chimici e diserbanti; la salinizzazione del terreno dovuta ad un’irrigazione sbagliata (i primi responsabili della desertificazione ed anche i primi a lamentarsi della carenza d’acqua sono proprio quelli che la sprecano quotidianamente, gli agricoltori); lo scavo di pozzi profondi che prosciugano le falde; lo sfruttamento eccessivo a pascolo; il disboscamento selvaggio.
Rinaturalizzare un paesaggio significa restituire al suolo la sua umidità naturale e per farlo non bisogna fare tutto quello che abbiamo fatto negli ultimi due secoli. Gli invasi artificiali non favoriscono il bilancio idrologico ma lo distruggono perché sono sistemi isolati che non si connettono con la natura circostante. Una diga di sbarramento non è costruita secondo le curve di livello ma secondo il progetto di un ingegnere. E’ costituita da un bacino il più profondo possibile in cui l’acqua è concentrata e bloccata con un grande muro di cemento e il suo deflusso non avviene secondo le stagioni e i ritmi naturali ma secondo il fabbisogno umano (acqua ed energia). Drena tutte le risorse idriche del territorio attorno, riducendo le forme di vita, ed è soggetta a forte evaporazione nei mesi più caldi perché l’ampio specchio d’acqua è esposto ai raggi solari. Senza contare che quando è troppo pieno o quando occorre effettuare delle manutenzioni il lago deve essere svuotato con spreco di grandi quantità d’acqua. Altro aspetto non di poco conto è che viene affidato a società esterne (spesso straniere) che si appropriano di un bene comune che appartiene alla collettività per scopi privati.
Un’alternativa agli invasi artificiali sono i bacini di ritenzione, ovvero un paesaggio acquatico composto da più bacini di raccolta in grado di impregnare d’acqua il suolo di un’area molto estesa. Si tratta di numerosi laghetti realizzati tenendo conto delle curve di livello naturali presenti nell’area che, se si ha la capacità di leggere il paesaggio (e forse è tutto qui il problema), non fanno che assecondare il normale deflusso dell’acqua e che possono essere modellati in modo che, in caso di precipitazioni normali, venga immagazzinata la stessa quantità di un invaso artificiale e, in caso di precipitazioni intense, sono in grado di assorbire meglio l’acqua perché sulle loro sponde si può coltivare e la vegetazione cresce più rigogliosa trattenendo l’acqua attraverso radici e humus. Le rive si prestano alla pesca perché, al contrario dei grandi invasi, possiedono vari livelli di profondità dove possono vivere diverse specie di pesci, anfibi e uccelli. Infine, il surplus di acqua può essere tranquillamente utilizzato per produrre energia elettrica.
Un bacino di ritensione idrica richiede il coinvolgimento dei proprietari terrieri ricadenti nell’area ma, soprattutto, un cambio di mentalità e una capacità di dialogo e di sinergia che le istituzioni non possiedono, al contrario di un invaso artificiale che è assimilabile ad una trattativa privata su un bene comune tra ente pubblico e soggetto gestore. Nel primo caso i benefici sarebbero territoriali, l’ecosistema migliorerebbe, i proprietari sarebbero responsabilizzati e coinvolti, si otterrebbero produzioni agricole di qualità e non ci sarebbero emergenze idriche. Nel secondo caso i problemi si accentuerebbero nel lungo periodo ma nel breve periodo l’impresa privata farebbe affari e il partitico raccoglierebbe il consenso delle associazioni di categoria degli agricoltori e non solo. Basta sapere questo per comprendere come andrà a finire.

Massimiliano Capalbo

Circa una settimana fa il presidente della Repubblica, Mattarella, è stato invitato a inaugurare l’accensione del supercomputer Leonardo a Bologna. Il quarto computer più veloce e potente al mondo, capace di milioni di miliardi di operazioni in virgola mobile al secondo. Durante l’inaugurazione, il sindaco di Bologna, Lepore, ha affermato: “il nuovo supercomputer ci lancia verso la rivoluzione digitale, ci consentirà di esplorare le nuove frontiere dello sviluppo e della ricerca. Penso agli effetti dei cambiamenti climatici e della pandemia“. A quanto pare il complesso di inferiorità non riguarda solo il Sud del paese e, così come molti meridionali hanno sbavato e continuano a sbavare di fronte al modello di sviluppo industriale del Nord, i settentrionali hanno sbavato e sbavano di fronte al modello tecnologico della Silicon Valley americana.
Affermazioni come queste le abbiamo sentite migliaia di volte nell’ultimo mezzo secolo e sono state e continuano ad essere smentite dalla storia e dalla realtà di tutti i giorni. La nostra vita non solo non è migliorata in seguito all’introduzione di nuove tecnologie sempre più sofisticate, ma stiamo cominciando ad accorgerci che hanno iniziato a costruire attorno a noi delle gabbie, delle prigioni che sono prima di tutto mentali e poi fisiche contro le quali, prima o poi, ci ribelleremo. Nessuno di questi annunciati “progressi” è mai riuscito ad andare oltre la propria materialità, oltre la mera quantificazione numerica, oltre l’aumento della velocità e il consumo ossessivo di energia. Eppure c’è ancora chi si lancia in proclami positivisti riguardo il futuro della tecnologia. Ci sono rubriche televisive che, ogni settimana, si limitano a diffondere questa narrazione positivista riguardo le nuove tecnologie che è semplicemente parziale e acritica, un’ossequiosa telecronaca dove l’equazione è sempre la stessa: tecnologia = progresso/miglioramento.
In questi giorni Mattarella è in visita ufficiale in Svizzera e che cosa gli hanno fatto visitare? Il Politecnico di Zurigo dove studenti e docenti italiani hanno mostrato altre mirabolanti tecnologie. Ma possibile che ogni volta che Mattarella si reca in visita di Stato gli unici “esempi di progresso” che possono essere mostrati riguardano diavolerie tecnologiche? Possibile che sia solo quello l’indicatore di progresso? Possibile che non ci sia nessuno in grado di mostrare al presidente una nuova idea di convivenza pacifica, un nuovo modo di pensare, un nuovo approccio filosofico nei confronti dell’esistenza, un nuovo modo di coltivare la terra o di rigenerarla partendo dal reale e non dal virtuale? Ma veramente pensiamo che il progresso di uno Stato o dell’umanità sia rappresentato da un capannone stipato con 155 ‘armadi’ pieni di processori del peso di 340 tonnellate, energivoro, che è possibile mettere ko semplicemente disattivando l’interruttore generale? Possibile che questo dogma sia indiscutibile? Possibile che l’annunciata crisi dei social media e la nuova bolla creata dalle big tech statunitensi non spinga nessuno a porsi delle domande? Ma quando guariremo dalla sindrome del pene piccolo e cominceremo a puntare sulle naturali vocazioni dei territori? Ma perché occorre fare continue gare per assomigliare a qualcun altro e diventare quello che non si è?
Quando ci risveglieremo da questa grande illusione? Quando la finiremo di fondare tutte le nostre convinzioni sulla scienza che si occupa di studiare e spiegare il 5% della realtà tralasciando il restante 95%?

Massimiliano Capalbo

Nel mese di luglio scorso per produrre un certificato di destinazione urbanistica relativo ad alcuni immobili ricadenti in un piccolo comune dell’entroterra calabrese, telefono all’ufficio tecnico del comune in questione per capire come procedere. Mi rispondono che la procedura è stata automatizzata, che devo utilizzare il sito calabriasue.it per inoltrare la richiesta.
Il 3 luglio provo ad entrare nel sito (tramite lo SPID), le pagine si caricano lentissimamente e mi rendo conto che alcune schermate richiedono l’ausilio di un tecnico (architetto o geometra) per essere comprese e compilate. Rinuncio. Il 6 luglio, scomodando un amico tecnico, riesco ad inoltrare la richiesta sul sito. Costo: cinquanta e più euro di versamenti più un paio di marche da bollo. Dopo circa un mese e mezzo dalla richiesta ricevo una telefonata dal comune in questione, occorre integrare la documentazione con un’altra marca da bollo. Dopo aver provveduto, sempre online, e trascorsi un’altra ventina di giorni, alla terza telefonata di sollecito scopro che il tanto atteso certificato è scaricabile online dal 21 settembre (nessuno mi aveva avvisato nè via pec nè telefonicamente). La produzione del mio certificato ha richiesto esattamente 2 mesi e 15 giorni. Tutto questo senza intoppi o errori nella documentazione, in caso contrario chissà quanto altro tempo ci sarebbe voluto.
Il giorno dopo, il 22 settembre, mi reco presso l’ufficio della circoscrizione del mio comune per il rinnovo della carta d’identità. La funzionaria, dopo avermi chiesto quello che già le avrebbe dovuto comparire sullo schermo, visto che si trattava di un rinnovo, mi chiede di apporre gli indici delle mie mani su un dispositivo che rileva le impronte digitali, ovviamente la procedura non va a buon fine, il dispositivo non le legge. Mi suggerisce di strofinare il dito sulla fronte e dopo alcuni tentativi riusciamo a concludere. “La carta le arriverà per raccomandata entro una settimana. Sono 22,50 euro, grazie e arrivederci” mi dice.
Dopo una settimana il postino non mi trova a casa, la carta deve essere consegnata al diretto interessato, trovo la ricevuta di consegna nella cassetta delle lettere in cui c’è scritto che telefonando ad un numero verde posso scegliere se effettuare un’altra consegna a domicilio oppure ritirarla in posta. Telefono al numero verde e, dopo aver intuito quale serie di numeri digitare per trovare il servizio giusto, una voce registrata mi dice di scegliere tra la consegna a casa o quella presso l’ufficio postale, scelgo la consegna a casa ma, per ragioni oscure, mi viene risposto che non è possibile, sono costretto a scegliere il ritiro in posta ma questo non può avvenire prima di qualche giorno. Nel frattempo lo SPID non mi funziona perché la carta d’identità risulta scaduta e questo mi impedisce in quei giorni di effettuare delle ricerche sul mio cassetto fiscale sul sito dell’Agenzia delle Entrate. Il 5 ottobre mi reco in posta per il ritiro del documento e l’addetta allo sportello, prima di consegnarmi il documento mi chiede un altro documento, le consegno la patente e chiedo: “scusi meglio di me stesso di quale documento ha bisogno?” Risposta: “dobbiamo verificare”. Ci sono voluti 13 giorni perché lo Stato riconfermasse che sono ancora me stesso.
Io vorrei che qualcuno mi spiegasse dove sono questi tanto decantati benefici introdotti dalla tecnologia nella nostra vita perché, questi sono solo gli ultimi due episodi (vi risparmio le esperienze nelle banche e in altri uffici) che mi sono capitati. Non solo non abbiamo ridotto i tempi e migliorato l’efficienza dei servizi ma abbiamo anche aumentato i costi e lo stress per l’utente tra procedure incomprensibili e rimandi di ufficio in ufficio.
Non c’è bando pubblico che non dia un elevato punteggio circa l’uso della tecnologia, non c’è partitico che non sbavi di fronte ad una nuova tecnologia, non c’è imprenditore che non parli di industria o impresa 4.0, siamo di fronte ad un nuovo dogma, si continua a credere che più tecnologia significhi miglior qualità della vita. Non è vero niente, è esattamente il contrario. Lo vogliamo dire una volta per tutte? La tecnologia non solo non risolve i problemi vecchi ma ne introduce di nuovi.
E’ notizia di ieri il licenziamento di un rider morto in un incidente stradale, per aver mancato l’ultima consegna, da parte di un software che non ha fatto altro che eseguire in automatico il compito per cui è stato programmato. Ho l’impressione che, così come le istituzioni anche la tecnologia sia un ottimo alibi per scaricare su qualcos’altro le nostre responsabilità.

Massimiliano Capalbo