Ognuno di noi ha delle idee, per farle crescere c’è bisogno di impegno, di conoscenza. La tua idea racconta di te, è la tua identità, il tuo sogno. Le idee da sole non bastano. Proteggi la tua idea con marchi e brevetti. Difendi la proprietà industriale, non rinunciare, informati: uibm.gov.it“. E’ questo il messaggio che da qualche settimana, attraverso una campagna di comunicazione ad ampio spettro, viene veicolato dal Ministero dello Sviluppo Economico.
Il target? Sul sito dell’Uibm si legge: “giovani e mondo dell’istruzione, piccole e medie imprese, cittadini/consumatori, esperti di proprietà industriale.” L’obiettivo della campagna? “Diffondere tra cittadini, nuove generazioni ed imprese, la cultura della Proprietà Industriale; educare ad un corretto impiego dei suoi strumenti di tutela, quale principale dispositivo di contrasto al mercato del falso, sottolineando inoltre il valore strategico dell’innovazione e della creatività, come chiave competitiva e di rilancio del sistema economico nazionale.” Il contenuto del messaggio? “Presentare l’importanza di marchi, brevetti e disegni come strumenti indispensabili per proteggere e dare valore alle idee. Di qui la scelta di rappresentare un’idea come un oggetto “fragile” (la bolla), a rischio (gli aculei del riccio), se non opportunamente protetta dagli strumenti della Proprietà Industriale (il foglio)“.
Le cose sono due. O il committente di questa campagna di comunicazione non sa cosa sia un’idea oppure lo sa benissimo e teme che anche gli altri prima o poi possano scoprirlo.
Innanzitutto le idee non nascono dal nulla. Tra i principi generali che sono alla base della produzione delle idee c’è n’è uno fondamentale: un’idea non è altro che una nuova combinazione di vecchi elementi. Ergo, per produrre nuove idee, c’è bisogno di utilizzarne di vecchie (prodotte da qualcun altro) ricombinandole in modo nuovo. E’ tutta qui la capacità del creativo. D’altronde anche per confezionare la campagna del ministero c’è stato bisogno di un’idea.
E qui entra in gioco il vizietto capitalistico di campare di rendita alle spalle del prossimo. Se recinto la mia idea utilizzando un brevetto, dandole dunque un valore economico, il prossimo che proverà ad utilizzarla dovrà sborsare dei soldi per farlo (se ce li ha) e io potrò guadagnarci (magari anche camparci di rendita), perchè se ho avuto una botta di culo una volta non sarà sempre così per l’eternità e dunque meglio tutelarsi. In questa concezione delle idee è racchiusa tutta la grettezza dell’uomo medio alla continua ricerca della “botta di” per risolvere il proprio problema di vivere, al quale sfugge il secondo principio fondamentale: le idee sono infinite, non c’è limite alla loro produzione, sono risorse rinnovabili, dunque nulla ne può giustificare la proprietà. Si tratta di beni intangibili comuni, potenzialmente disponibili per tutti e in grado di generare quel cambiamento tanto invocato. Il loro numero dipende dalla capacità dei singoli di produrne a loro volta. La fragilità dell’idea, richiamata dal messaggio pubblicitario in questione, non è dovuta dunque alla possibilità o meno che possa essere rubata da qualcun altro (a parte il fatto che le idee non possono mai essere replicate allo stesso modo da chi non le ha ideate) ma semmai dalla capacità o meno di realizzarla. Gli uffici di registrazione sono pieni, infatti, di marchi e brevetti senza valore, mai lanciati o falliti. Come ci ricorda Seth Godin: “L’innovazione non è prodotta dalle aziende ma dalle persone e chi sa promuovere un’idea ha più successo di chi la concepisce“.
L’obiettivo della campagna di “diffondere tra i cittadini e le nuove generazioni la cultura della proprietà intellettuale” dunque rischia, paradossalmente, di generare l’effetto contrario, ovvero di impedire o rallentare il “rilancio del sistema economico nazionale”. Questa si che è un’idea fragile.
L’economia non si crea recintando le idee ma, semmai, liberandole, diffondendole, facendogli respirare aria nuova, non tenendole in soffitta. Forse se l’Italia non riparte dipende anche dall’odore di naftalina che si respira un pò ovunque, da un’impostazione imbalsamata della nostra vita che tende ad essere concepita alla stregua di un brevetto, utilizzando metodi da fine ‘800 più che da inizio del nuovo millennio, un atteggiamento che cozza con la velocità con cui i cambiamenti avvengono nel resto del mondo.
Tutto questo non ha nulla a che vedere con la registrazione dei marchi o la lotta alla contraffazione o i brevetti industriali. Stiamo parlando di principi generali, di libertà di espressione, un termine molto in voga (a parole) in questi giorni.
Ecco perchè un ministero invece di spendere soldi pubblici per promuovere la “proprietà intellettuale” dovrebbe diffondere concetti come il copyleft e promuovere le licenze creative commons, fenomeno sociale e culturale figlio della rivoluzione di Internet, che non impediscono di rivendicare la paternità di un’idea o di un’opera (e tanti altri diritti) e neanche di guadagnare da ciò, ma lasciano la libertà alle idee di diffondersi nella società e produrre i loro effetti, senza paura.

Massimiliano Capalbo

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