Sono stato a cavallo tra l’Umbria e il Lazio, a fine settembre, tra la provincia di Terni e quella di Viterbo, per visitare alcune attrattive naturalistiche e archeologiche lì presenti e ho avuto la conferma, ancora una volta, di ciò che affermo da tempo: che i territori vivono di un’immagine stereotipata che non corrisponde quasi mai alla realtà e che i loro abitanti ne sono soggiogati mentalmente prima che fisicamente.
Per raggiungere questi luoghi ho percorso strade statali dal manto dissestato e con scarsa segnaletica turistica, eppure non ho mai sentito dire che il problema dell’Umbria sono le strade e che queste ne abbiano impedito lo sviluppo turistico o economico (Terni ha vissuto di acciaierie fino all’altro ieri) come avviene invece in Calabria da decenni. Chi vive in Umbria dispone di soli 67 km di autostrada in confronto alla quale la strada statale 280 dei Due Mari, che collega Lamezia Terme a Catanzaro, può essere considerata una highway americana; un piccolo aeroporto a Perugia, con pochi voli, mentre prendere un treno è un’odissea soprattutto nelle zone più periferiche. Ma l’Umbria non è famosa per il problema dei collegamenti, quanto per la sua storia, la sua spiritualità, la sua arte e, un pò meno, la sua natura.
Ho scoperto, infatti, e visitato la foresta fossile di Dunarobba, un sito unico nel suo genere in Italia e tra i più rari nel mondo per le sue caratteristiche (ne esistono solo altri tre così, in Canada, in Germania e in Ungheria) di cui ho appreso l’esistenza per caso, girovagando sul Web. Si tratta di una foresta fossile di piante della stessa famiglia delle sequoie, ubicata nel comune di Avigliano Umbro, in provincia di Terni, di circa 50 alberi fossilizzati di conifere (appartenenti ad una specie estinta, probabilmente il Glyptostrobus europaeus) risalente a 2/2,5 milioni di anni fa, che doveva raggiungere in vita ben oltre i 30 mt. di altezza e che vegetavano sulla sponda dell’immenso Bacino Tiberino, a forma di Y, che ricopriva gran parte dell’Umbria prima che un evento catastrofico ne modificasse decisamente l’orografia.
Le particolari caratteristiche di questo sito paleontologico lo rendono un monumento naturalistico unico al mondo e di grande rilevanza scientifica. La sua particolarità, rispetto agli altri ritrovamenti nel mondo, è data dalla coesistenza di tre condizioni, assolutamente rarissime: 1) i tronchi sono presenti in gran numero, vediamo infatti rappresentato un ambiente forestale mentre di solito sopravvivono solo pochi esemplari; 2) si trovano in posizione vegetativa ed in situ, cioè nell’ambiente in cui hanno esaurito il proprio ciclo vitale; 3) si conservano ancora con la loro sostanza organica originaria, cioè sono ancora legno, pur avendo due milioni di anni! Pertanto non appare corretto parlare di fossili propriamente detti (organismi silicizzati), anche perché, come vedremo, gli unici fossili in questo sito sembrano essere le istituzioni che se ne sono occupate.
Le prime scoperte risalgono al 1620 ma è solo nel 1987 che l’interesse scientifico si focalizza sul sito, anno in cui il Ministero per i Beni Culturali pone sul sito il vincolo come bene paleontologico e la Regione Umbria come bene ambientale. Da qui inizia il suo lento degrado.
L’ultimo intervento, ma sarebbe più corretto parlare di sfregio, fatto su questo sito dalle istituzioni risale al 1999 anno in cui il comune di Avigliano Umbro ottiene dei fondi (non sappiamo quanti) per compierlo, in collaborazione con il CNR di Firenze e Pisa, per realizzare prima delle orrende tettoie in lamiera per riparare dagli agenti atmosferici i tronchi riportati alla luce e, successivamente, una sorta di camera iperbarica per quattro di questi esemplari, quelli più vicini, per “preservarli” mantenendo una temperatura costante di 20 gradi centigradi ed un’umidità, udite udite, del 70%, che ovviamente ha creato problemi rendendo questo intervento inefficace oltre che dannoso e costoso. Gli alberi sono quindi rimasti prigionieri di questa mega struttura che si è deciso poco tempo dopo di disattivare (per il fallimento dell’esperimento ma anche, e soprattutto, per gli elevati costi di mantenimento) con le nefaste conseguenze (aumento della temperatura d’estate, crescita di una fitta vegetazione al suo interno) che oggi sono sotto gli occhi dei visitatori. Il monumento al fallimento e lì e non viene rimosso perchè, come accade spesso in Italia, non si sa chi abbia le competenze per farlo con la conseguente disidratazione dei tronchi che rischiano di subire ulteriori danni. Qualche decennio di “cure” artificiali ha fatto più danni di milioni di anni di eventi naturali.
Negli ultimi anni nella gestione del sito si sono susseguite diverse cooperative, attualmente se ne occupa una multiservizi, la CMSU, per la quale lavorano due ragazze, Marta Pinzaglia (laureata in scienze naturali) e Daniela Franchini (laureata in beni culturali con indirizzo archeologico). E’ quest’ultima a guidarmi con passione e competenza in questa visita cercando, come spesso accade in Italia, di farsi essa stessa istituzione (visto che quelle che continuiamo a definire tali latitano) e a restituire un pò di dignità ai luoghi.

Massimiliano Capalbo

Commenti

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1 commento
  1. Lia
    Lia dice:

    Questo sfregio sarà stato perpetrato dai soliti “dottoroni” superspecializzati col consenso delle intelligenze ministeriali… Che orrore!!

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