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Il coraggio di cambiare lo status quo

A volte, ripercorrendo il sentiero passato, mi accorgo che, in base alle scelte fatte, anche le parti potevano essere invertite. Quando dopo un costante e crescente interesse verso tutto ciò che riguardava la natura in ogni suo aspetto, mi trovai al classico bivio dove scegliere un percorso di studi che andasse in una simile direzione, mi orientai verso Scienze ambientali. Fino ad allora, vedendo continuamente le nefandezze che venivano perpetrate, la cementificazione della mia città, le capitozzature degli alberi, la distruzione di ogni lembo di verde rimasto, ero convinto che tramite quel percorso avrei potuto fare qualcosa.
Quando giravo per le campagne, avevo finito per odiare i contadini. Una massa di ignoranti da reprimere a suon di leggi. Ero convinto che solo una forte legislazione ambientalista senza scampo avrebbe potuto salvare il pianeta. Quasi alla stregua di una dittatura. Ma non stavo dimenticando qualcosa? Si. Stavo dimenticando la mia umanità.
Perché prima di essere misantropi, auspicando un cambiamento a suon di repressione, di trasformazione dei diritti di vita in privilegi e doveri sulle nostre spalle, prima di teorizzare la sovrappopolazione senza ridurre prima tutta la nostra impronta ecologica, e voler imporre alle persone quali scelte di vita fare sulla base della coercizione del denaro, dobbiamo ricordarci che siamo umani. Non macchine. Che le persone vogliono semplicemente vivere, ed un modo di invertire la tendenza è possibile solo grazie all’ascolto ed all’amore. Alla comprensione, senza imposizione.
Di fronte alla massa di studenti ebbi l’impressione che gran parte dei presenti non fossero lì per passione, ma solo per aver fiutato un lavoro in crescita nell’immediato futuro green. Ci si stava dimenticando che qualsiasi transizione ecologica non può essere esente dall’educazione e dalla possibilità economica di accedervi. Una vita ecologica in decrescita non può essere privilegio in base al denaro. Mi fu detto che le battaglie si fanno solo sulle carte. Che non si protegge se non si conosce. In quel momento sentii una stretta forte al petto. Perché dentro di me gridavo che non si protegge se non si ama.
Quella forte sensazione mi consentì di capire che il percorso che stavo facendo mi avrebbe portato ad alienarmi da ciò che sentivo dentro. Che avrei agito come un controllore senza buon senso, uno dei tanti burocrati feroci vincolato a leggi scritte senza conoscere i contesti. Che le stesse leggi secondo cui si sarebbe voluto tutelare l’ambiente, avrebbero represso ogni esperienza di vita naturale e comunitaria, creando dualità.
Fu allora che mi trovai a un bivio. E feci la scelta più coerente ideologicamente, se volevo boicottare tutto ciò in cui non credevo. Un ritorno alla natura spontaneo. Probabilmente, senza quella stretta al petto, ora ci sarei io nei panni del controllore zelante, magari in divisa, pronto a cercare il pelo nell’uovo e reprimere. Scoraggiando ogni ritorno alla natura che non sia farcito da una grande dose di denaro per ottenere i timbri di chi mangia gratis sul tuo sudore. Avrei sacrificato me stesso per divenire nient’altro che una macchina, inconsapevole dei danni che provoco e di quanti sogni stronco sul nascere. Schiavo dello stesso sistema che da una parte distrugge e fagocita, dall’altra ci dona l’illusione della protezione della natura. A pagamento.
Magari con un titolo, avrei potuto scrivermi e firmarmi da solo i progetti, gettando merda su tutte le esperienze alternative. Stigmatizzando chi fa il meglio che può con quello che ha, come se fosse un misero furbetto. Un ladro. Un evasore. E magari avrei partecipato a corsi e concorsi per prendere finanziamenti per realizzare anche la minima azione in difesa della natura. E in mancanza di soldi, non mi sarei mosso a protezione e studio di nulla. Avrei lavorato con la natura alla stregua di qualsiasi lavoro. Perché nell’ottica di un lavoro per soldi, è indifferente se tu studi una pianta o servi al Mc Donald.
Avrei riso di tutti coloro che non si “fanno il mazzo” accumulando denaro solo per pagare pezzi di carta o la mia consulenza professionale. Infamandoli anche. Etichettandoli come parassiti, stigmatizzando la povertà in perfetta chiave capitalista. Mi sarei autorecintato con l’illusione di cambiare le cose dall’interno. Al prezzo di distruggere tutti i sogni che non fossero riconosciuti da un pezzo di carta.
Di fronte a queste prospettive inquadrate e distanti dall’uguaglianza sociale, fui inorridito. Vidi l’orrore con cui un buon proposito diventa cibo per avvoltoi. Mi venne la nausea al punto da farmi mancare il respiro. Mi chiesi che cosa c’entrasse la mia anima con tutto questo. Scelsi di lasciare l’università e ricercare una via più coerente. Perché ritornare alla natura è solo la conseguenza di una profonda scelta ideologica. Cominciavano a farsi sentire anche quelle che erano le radici contadine. Di una famiglia formatasi da genitori emigrati dai loro contesti naturali di pastori e contadini. Della nonna paterna emigrata in città. Di uno zio andato in Francia per lavoro da clandestino. Come se una generazione urlasse il suo riscatto.
Posso sentire le voci di chi ha vissuto queste mura prima di me. Di coloro che per necessità dovettero fare una vita semplice ma di fatica. La stessa vita che ora viene impedita con ogni mezzo e filtro. Ero ben consapevole di ciò che questa scelta avrebbe comportato. Schierarsi apertamente contro lo status quo. Esser bollato come un reietto non integrato. Messo ai margini ancor più se si prendono le difese dei più deboli. Di tutti coloro che vorrebbero ma non possono, bloccati da tutte le leggi e burocrazie del mondo. Ero ben consapevole, fin da bambino, di cosa avrebbe comportato un simile pensiero: una vita a lottare contro le tempeste, spesso in solitaria, o sbeffeggiato come un Don Chisciotte. Contro una battaglia che già in partenza sai di non poter vincere. Come se esprimere una minoranza non fosse anch’esso un atto politico.
Ma era davvero così importante la vittoria? Se esprimi te stesso e ti liberi, non hai forse già vinto, essendo testimone di un messaggio? Un messaggio che è tanto più spontaneo, quanto importante da comunicare. Anche a nome di tutti gli invisibili nascosti, di chi si lamenta ma non agisce.
Di fronte ad un’altra stretta al petto, mi trovai ad un altro bivio. Scegliere di chinare la testa o esprimermi. La risposta fu di andare avanti, perché accettare qualcosa solo perché è sempre andato così non vuol dire che debba andare così. Perché ogni persona che accetta lo stato di cose presente, condanna tutte le altre ad una lenta morte, ad una tacita sottomissione. Ci sarà un prezzo da pagare? L’isolamento? Non poter realizzare un sogno? Ma almeno ogni giorno potrò sempre guardarmi consapevole di non aver scelto di morire dentro un po’ per volta. Ci vuole coraggio a resistere, nonostante tutto.
Ma credo che divulgare cosa non è eticamente e moralmente giusto, sia di estrema importanza nel mondo in cui viviamo attualmente, diviso in fazioni, in marcia verso discriminazioni sociali crescenti. Ci vuole coraggio a seguire il proprio sentire. Ma ricordiamoci sempre che lo status quo lo decidiamo noi con le nostre singole azioni e scelte quotidiane, che hanno il potere di cambiare noi stessi e ciò che ci circonda.

Fabrizio Sulli

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