Il linguaggio della guerra e l’iniqua distribuzione del potere
Che strano popolo che siamo. Per due anni ci siamo rapportati con Sars-Cov2 come se fossimo in guerra e lui il nemico da sconfiggere, abbiamo usato un linguaggio militare, abbiamo perfino messo un generale a gestire le misure per il contenimento e il contrasto dell’emergenza Covid-19, per rendere palese che si trattasse proprio di una guerra, abbiamo inferto molte ferite a tante persone che avranno bisogno di molto tempo per rimarginarsi e messo in ginocchio un’economia, e adesso di fronte ad una vera operazione militare condotta con armi, quella in Ucraina, inorridiamo e sventoliamo ramoscelli d’ulivo.
Abbiamo un governo guidato da un premier che, in quanto a ego, non ha nulla da invidiare a Putin e che nell’ultimo anno ha espresso provvedimenti restrittivi che nulla hanno a che fare con la scienza e la salute, ma semplicemente con l’intenzione di punire una minoranza che non ha ubbidito al diktat della vaccinazione, un premier che è stato capace di spaccare in due il paese, creando una categoria ed etichettandola come no-vax e additandola come responsabile della propagazione del virus, che adesso condanna l’atto di prepotenza del suo omologo russo.
Non ci rendiamo conto che la guerra prima di essere agita viene evocata attraverso il linguaggio. Che le parole che utilizziamo per definire e regolare i rapporti con gli altri e con gli eventi che accadono attorno a noi sono intrise di violenza e ostilità. La comunicazione non ostile non appartiene alla nostra cultura, non si insegna a scuola e non rappresenta lo strumento principale per dirimere le controversie in Occidente.
La nostra società è organizzata in maniera verticistica, militare. In cima alle piramidi che abbiamo costruito ci sono i capi, che esercitano il potere, e via via che scendiamo di gradino i sottoposti, i soldati, che devono eseguire e ubbidire. Mi ha fatto specie ieri sera, seguire lo speciale di una nota redazione giornalistica della Rai sulla guerra in Ucraina, condotta da una giornalista che non perdeva occasione per ossequiare il direttore del Tg che le sedeva accanto, un atteggiamento non molto diverso da quello che gli oligarchi russi hanno assunto fino ad oggi nei confronti del capo del Cremlino. Nello stesso momento, su un altro canale pubblico, una famiglia (marito e moglie) conduceva una delle trasmissioni televisive più seguite, come nei migliori regimi oligarchici. Eppure non ce ne rendiamo conto.
Non abbiamo ancora capito, dopo millenni di guerre, che quando il potere è una risorsa scarsa e quando viene concentrato in poche mani da un lato (da parte di chi lo detiene) genera dispotismo o, nella migliore delle ipotesi, familismo amorale e dall’altro (da parte di chi lo desidera) ambizione, avidità, paura, risentimento. Questo conduce ad una lotta per il suo accaparramento che non può che passare attraverso una guerra.
L’iniqua distribuzione del potere è all’origine di tutte le contrapposizioni a cui assistiamo nel mondo. Superare questo problema è la principale sfida alla quale il mondo è chiamato. Cedere potere equivale, da parte di chi lo detiene, a dare fiducia mentre, da parte di chi lo riceve, ad assumersi responsabilità. E’ un atto di maturità e di evoluzione personale. Fiducia e responsabilità sono le due parole chiave che possono dare una svolta all’umanità ma che sono evitate come la peste da tutti noi. Invocare la pace senza prima agire nella propria personale esistenza dando fiducia agli altri e pretendendo in cambio responsabilità non serve a nulla. Siamo tutti pronti a condannare i comportamenti altrui e ad invocare la pace quando non siamo toccati personalmente ma, come dimostra la cronaca quotidiana, non esitiamo ad imbracciare le armi quando ci sono da difendere le nostre piccole o grandi posizioni di potere.
Massimiliano Capalbo
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