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Il mito dell’ospedale

A inizio pandemia, quando tutti attribuivano il caos ospedaliero ai tagli alla sanità operati dai governi dell’austerity, ci fu chi fece presente che ancor più colpevole era la distruzione della rete dell’assistenza domiciliare, ovvero di quel reticolo di medici di famiglia che una volta venivano a casa tua e ti visitavano personalmente. Oggi, se telefoni al medico quando stai davvero male e non puoi andare in ambulatorio, il più delle volte ti dice di andare all’ospedale. Così succede ormai anche per la guardia medica. A tanti italiani sembra logico che l’ospedale sia il centro di tutta l’ assistenza sanitaria.
Oggi, alla ripresa della pandemia, emergono testimonianze di medici (ho letto quelle del dr. Cavanna di Piacenza e del dr. Munda di Nembro-BG) che, in solitario, hanno fatto durante i mesi più cruciali assistenza domiciliare ai loro pazienti malati di Covid, per scelta propria e senza l’aiuto di un protocollo ministeriale che orientasse le loro iniziative. Ebbene, emerge che il numero di pazienti morti assistiti a casa è pari o vicino allo zero.
Logica vorrebbe che governo e regioni puntassero tutta l’attenzione sul ripristino di quella rete domiciliare, in grado di ridurre non solo la mortalità, ma anche la spesa sanitaria. Questo non è avvenuto nei mesi scorsi e neppure oggi è in programma. Perché?
Per ogni paziente Covid ricoverato, ci dice Bertolaso in un’intervista, lo stato versa 2.000 euro al giorno all’ospedale. Duemila euro al giorno!!! Che tentazione, per gli ospedali, attribuire al Covid ogni decesso nei reparti, basta trovare positivo un malato di altre patologie. Sembra che le ragioni economiche dell’ospedale abbiano superato le sue originarie ragioni sanitarie soprattutto da quando gli ospedali sono diretti da managers, i suoi dirigenti sono diventati di fatto degli economisti ed è su questo piano che il più delle volte si sviluppa il rapporto con i politici.
E’ quanto denunciava decenni fa Ivan Illich con il suo libro “Nemesi medica”. I medici che oggi sono in corsia forse lo hanno letto tanti anni fa quando erano studenti perché il libro suscitò un grande dibattito nelle facoltà di medicina, ma evidentemente i più lo hanno dimenticato.
Molte grandi organizzazioni, scriveva Illich, nate per uno scopo benefico, nel tempo si trasformano in istituzioni autoreferenziali e i motivi che le animavano all’inizio si rovesciano: la sopravvivenza dell’istituzione e gli interessi di chi ci lavora giunge a prevalere sullo svolgimento del compito originario. Cosi l’ospedale, spesso, non corrisponde più alle sue nobili origini, mentre il suo mito impedisce di vedere la complessità dell’assistenza e giunge a creare quegli intasamenti ai pronto soccorso che oggi, dichiarano molti medici, sono uno dei maggiori problemi.
Il mito dell’ospedale è favorito da quei pazienti che sono abituati a concepire la malattia come qualcosa che viene dall’esterno. Come in tempi antichi si vedeva nella malattia un castigo di Dio, un essere che sovrasta ogni nostra decisione, così oggi molti pensano che la malattia sia sempre qualcosa che viene dall’esterno, che non ci riguarda, non dipende dalle nostre scelte di vita, ma riguarda gli esperti esterni che sanno tutto.
Certo, il virus viene dall’esterno, ma se trova le porte aperte e le porte sono il sistema immunitario, chi ne è responsabile?
E’ una domanda che tanti non vogliono sentirsi rivolgere, perché è imbarazzante, perché costringe a guardar se stessi e non solo i politici, è una domanda che la maggior parte dei medici non rivolge ai pazienti perché così si affidano senza alcuna difesa all’esperto esterno e all’ospedale.
E’ la domanda invece che anima tanti di quei medici solitari che hanno provveduto ad assistere in modo umano i propri pazienti, in prima persona, cercando di esser vicini (la vicinanza è terapeutica) ed è su di loro che può contare la speranza di un sistema sanitario diffuso, sparso nel territorio, capace di dialogare con le unità abitative, di integrare in unità tutte le soluzioni terapeutiche, di lasciare che sia l’uomo a curare l’uomo e non le macchine.

Giuliano Buselli

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