L’apolitica di Confindustria
Il Presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, questa mattina partecipando ad una manifestazione tenutasi all’Unione Industriale di Torino ha dichiarato “noi siamo apolitici” in risposta alla domanda di un giornalista sulla possibile staffetta Letta-Renzi e io ho fatto un balzo sulla sedia perché o Squinzi non conosce il significato della parola “apolitico” oppure si è trattato dell’ennesimo tentativo di sottrarsi alle proprie responsabilità.
Mentre l’apolitico è colui che manifesta indifferenza o disinteresse verso la politica in generale può definirsi apartitico, invece, colui che non appartiene ad alcun partito o che non sposa alcuna ideologia di partito. Io credo che il Presidente di Confindustria volesse utilizzare il secondo termine perché affermare che Confindustria sia apolitica è come affermare che la famosa pornostar Cicciolina è ancora vergine.
In realtà Confindustria è sempre andata a braccetto con i potenti di turno, limitandosi ogni tanto ad esprimere critiche e preoccupazioni ai microfoni dei tg. Anche perchè la relazione Stato-Imprese in Italia è sempre stata una relazione molto ambigua e asimmetrica.
Non esiste una definizione omnicomprensiva della parola imprenditore, in Italia, perchè ne esistono diverse tipologie (alcuni per la verità impropriamente definiti tali) che mi accingo a descrivere sommariamente.
Partendo dall’alto, da quelli più grossi (gli industriali per intenderci), potremmo affermare che questa tipologia, di cui Confindustria è piena zeppa, è costituita prevalentemente di capitalisti senza capitali e senza scrupoli che per raggiungere determinati livelli sono dovuti scendere a compromessi con la politica e con le mafie (per quanto riguarda lo smaltimento dei rifiuti tossici ad esempio) che hanno fornito loro i capitali (attraverso le banche) per compiere operazioni che potessero garantire la politica da un lato (per assumere le proprie clientele) e gli imprenditori dall’altra (per garantirsi lauti dividendi). Insieme hanno consumato la ricchezza prodotta nei cinquant’anni del dopoguerra e hanno impoverito e inquinato il Paese, producendo la devastazione che abbiamo di fronte e contro la quale, oggi, abbaiano come i cani alla luna.
Poi ci sono i medi imprenditori che si suddividono, a loro volta, in quelli che ambiscono e scalpitano per diventare come i grandi (e che da loro vanno a scuola) e quelli più saggi che hanno raggiunto un proprio equilibrio dimensionale, che sono radicati sul territorio e che hanno un mercato consolidato da tempo. Questi rappresentano la grossa fetta produttiva del Paese che, alla stregua del ceto medio, si stanno impoverendo sempre più a causa dell’eccessiva tassazione, della burocrazia e del malfunzionamento del sistema Paese.
Infine ci sono i piccoli, quelli che provano a fare impresa ma si trovano di fronte ostacoli insormontabili come le tasse, la burocrazia e i disservizi ai quali si sommano i ritardi e la mentalità dell’ambiente in cui operano (soprattutto al Sud) che tirano a campare, alla stregua di un normale lavoratore dipendente, ma con le responsabilità e i rischi di un’attività in proprio. La relazione che lo Stato ha con questi ultimi è di disprezzo, il messaggio che invia loro è: “cosa credi di fare? L’imprenditore? Vorresti essere autonomo dalla politica? Hai sbagliato Paese!” Il frutto del sudore delle PMI (Piccole e Medie imprese) ufficialmente serve per il Welfare (il vecchio Stato sociale) in realtà viene dirottato con vari stratagemmi per mantenere i partiti, gli apparati burocratici, le istituzioni inette e improduttive.
Se Confindustria fosse stata apolitica, come il suo Presidente erroneamente ha affermato, avrebbe già messo in atto l’unico provvedimento (questo si politico) in grado di porre fine all’onanismo partitico a cui stiamo assistendo da quasi un anno. Un provvedimento che non richiede manifestazioni, disordini, urla o blocchi: si chiama disobbedienza fiscale. Poiché, invece, è sempre stata “particolarmente politica” oltre che complice, oggi come ieri, è costretta a muovere la bocca come i pesci nell’acquario, limitandosi ad esprimere critiche (alla politica) e preoccupazioni (circa la possibilità di continuare ad agire indisturbata) e ad attendere di conoscere il nome del prossimo alleato di governo.
Massimiliano Capalbo
Questi imprenditori questuanti che chiedono al governo la soluzione di problemi che loro hanno concorso a causare ed a cui non hanno mai veramente voluto metter mano sono quanto di peggio una nazione possa offrire. Questi AD dalle soluzioni facili, questi padroni dalle idee piatte sono lo strascico dell’abbondanza degli anni del debito facile in cui lo Stato pagava il doppio lavori e prodotti. Oggi, invece di proporsi come motore trainante di un’economia che riparta dall’uomo, sanno solo allungare la mano e questuare, appunto,l’obolo di Stato. Ma la pacchia è finita, il fondo è toccato. Eppure, le vecchie e meccaniche abitudini restano. Se è un governo come quello attuale (disputato con spudorata tracotanza da due inutili politicanti la cui unica esperienza è la politica dei partiti) a dover trovare una soluzione ai problemi del paese e se gli imprenditori non hanno altri referenti a cui rivolgersi che il governo, allora è tempo che questo paese fallisca.