Non c’è orario che tenga
Richard Branson, l’imprenditore britannico fondatore dell’impero Virgin, ha dichiarato di aver abolito l’orario di lavoro per i suoi dipendenti statunitensi e britannici, affermando che “contano i risultati, non le ore che passi in ufficio” e teorizzando il tutto sul suo blog e in un libro. Sembra che ad ispirarlo sia stato un articolo riguardante i benefici che la piattaforma statunitense Netflix avrebbe ricavato in termini di produttività e creatività adottando tale scelta.
Occorre sempre separare il giudizio su chi adotta una scelta da quello sulla scelta stessa, perchè l’autore può, a seconda della propria attendibilità, sensibilità o delle proprie finalità influenzare il giudizio sull’efficacia della scelta e renderla più o meno credibile e adottabile.
In realtà tale approccio non è un’invenzione nè di Netflix nè di Branson. Pekka Himanen, autore di “L’etica Hacker e lo spirito dell’età dell’informazione” aveva teorizzato già nel 2001 (ben 13 anni fa) tale ipotesi, raccontandoci come gli hacker fossero i precursori di una nuova etica del lavoro. Nelle società capitalistiche, scriveva, non si lavora per vivere ma si vive per lavorare. In queste società vige l’etica protestante del lavoro teorizzata da Max Weber. L’etica hacker può liberarci dalla schiavitù che l’etica protestante ci ha imposto fino ad oggi.
La scelta di Branson, dunque, sposa (forse involontariamente) l’etica hacker dove si passa dal concetto de “il tempo è denaro” della società capitalistica, al concetto de “la vita (e quindi il tempo) è mia” dell’etica hacker. Un concetto rivoluzionario che potrebbe, se adottato veramente, stravolgere le nostre vite in meglio, anche se il paradiso non è di questa terra.
Per gli hacker il denaro non è un obiettivo ma una conseguenza del proprio talento, delle proprie capacità che possono essere esplicate a prescindere da un orario e da un luogo ben definito di lavoro. Gli hacker, infatti, stabiliscono una libera relazione con il tempo, secondo i concetti di auto-organizzazione e di flessibilità, non giudicano le persone in base al tempo impiegato ma in base ai risultati raggiunti (criterio meritocratico).
Tutto questo è possibile da quando le nuove tecnologie della comunicazione hanno stravolto il nostro modo di vivere, lavorare, comunicare, relazionarci, impedendoci di fatto di distinguere il tempo di lavoro da quello di non-lavoro perchè il lavoro, attraverso tali strumenti, ci insegue anche a casa e nel cosiddetto tempo libero. Dunque è sempre più necessario svolgere attività piacevoli e interessanti per riuscire a lavorare sereni. L’hacker svolge il lavoro che gli piace e lo svolge con passione (uno degli ingredienti fondamentali del successo) semplicemente perchè lo trova interessante, piacevole, divertente. Questo aspetto ci richiama ad una riflessione sui criteri che le persone adottano per decidere cosa fare nella vita e come farlo, analizzati più volte su questo blog. Tutto dipende da che tipo di lavoro hai scelto di fare nella vita, se è il lavoro per cui hai passione coinciderà inevitabilmente con la tua vita, se si tratta solo di una mansione da svolgere per conto terzi non c’è orario che tenga.
Anche se ricca di passione e creatività l’attività degli hacker non è al riparo dalla fatica e dai sacrifici ma, ci ricorda Himmanen, “c’è una certa differenza tra l’essere permanentemente tristi e l’aver trovato una passione nella vita, per la cui realizzazione ci si può anche impegnare nelle parti meno divertenti ma comunque necessarie“.
Il messaggio pragmatico che ci proviene da tutta questa vicenda è che la fonte più importante di produttività dell’economia è la creatività e che non è possibile creare cose interessanti (e quindi innovare) in condizioni di fretta costante o con un orario regolato e forse è questa la strada per uscire dalla crisi che dura dal 1929. Il messaggio etico, invece, consiste nell’affermare che la cultura della supervisione dell’orario di lavoro considera le persone troppo immature per essere responsabili, anche se è così che le istituzioni ci vogliono.
Tutto ciò ci suggerisce che forse è il caso di cominciare a coniare una nuova definizione di “lavoro”, che neanche Branson ha compreso, perchè quello che abbiamo chiamato così fino ad oggi non esiste più, nonostante il primo articolo della nostra Costituzione (che andrebbe cambiato) si ostini a ribadirlo. La perdita costante di posti di lavoro e la difficoltà dei giovani nel trovarli ci comunicano che stiamo cercando ciò che non c’è più, perché ha cambiato forma, e noi ancora non siamo in grado di riconoscere la nuova, impegnati come siamo ad azzuffarci su ciò che conosciamo (in Italia per esempio l’art. 18).
Massimiliano Capalbo
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