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Perché quella di Africo non è una storia di povertà e di isolamento

Aspromonte, la terra degli ultimi” di Mimmo Calopresti è un bel film, anche se non privo di svarioni e omissioni, perché consente di aprire un dibattito su un tema mai raccontato veramente. Lo è, inoltre, non solo per la bella fotografia (aiutata da un paesaggio straordinario) e per i bravi attori che vi recitano ma perché racconta, ispirandosi ad un fatto di cronaca realmente accaduto negli anni ’50, la sceneggiatura che da sempre viene messa in scena in Calabria, lasciandone aperto il finale e quindi l’interpretazione. Racconta di quel continuo oscillare tra la natura selvatica dei suoi abitanti e insieme del loro territorio da sempre considerati (e consideratisi) vittime e il tentativo di “civilizzazione” di uno Stato da sempre ritenuto, a seconda delle circostanze e dei personaggi che lo hanno rappresentato, carnefice (quando impone le sue leggi) o salvatore (quando elargisce aiuti).
Chi ha visto il film (ma anche letto le recensioni) è convinto di aver assistito al racconto di una storia fatta di isolamento e povertà, di un paese che (come Matera) era considerato una vergogna. Due parole che non significano la stessa cosa per tutti. Le parole, infatti, sono soggette alle interpretazioni che a loro volta dipendono dal periodo storico in cui si vive e dal pensiero dominante al quale purtroppo sembra aderire lo stesso regista.
Il film ci racconta che è la morte di una donna, durante un parto, a spingere gli abitanti del borgo a costruire una strada che colleghi il paese montano alla marina. In realtà i veri motivatori (che il film non racconta) sono nascosti e probabilmente sono le voci di una modernità che bussa alla porta (quella esplosa in quegli anni in Italia) che arrivano nel borgo non attraverso i media (gli abitanti erano analfabeti e privi di corrente elettrica) ma attraverso il passaparola. Un pò come avviene oggi quando i giovani calabresi (allo stesso modo di molti giovani africani che si imbarcano su un gommone) credono all’esistenza di paradisi che si troverebbero altrove, raccontati dai media. Uscire dall’isolamento cominciava a significare allora e significa ancora oggi, mescolarsi agli altri per non sembrare diversi, appiattirsi, omologarsi allo stile di vita imperante e gli articoli, come quello pubblicato nel 1948 dal settimanale L’Europeo, mostravano questa diversità inconcepibile per una nazione, l’Italia, che stava andando a passo spedito verso il consumismo.
Gli abitanti di Africo, in realtà, non erano isolati, semplicemente impiegavano più tempo per spostarsi di altri e ogni (raro perché non necessario) spostamento richiedeva fatica. L’isolamento di cui si parla ha più a che fare con due elementi: il primo è la velocità (mito fondante della modernità e della post-modernità) con cui questi spostamenti avvenivano, per la donna che partorisce nel cuore della notte, infatti, il tempo non è sufficiente, mentre per il marito che viene colpito da un proiettile sparato da Don Totò, invece, il medico arriva in tempo; il secondo è l’istruzione (leggi appiattimento) di massa, il protagonista più colto della storia è il poeta Ciccio che esprime le uniche vere perle di saggezza, proprio perché non sottoposto al plagio della scuola. Quella di Africo non è stata l’unica comunità che ha vissuto “isolata” dal resto del mondo (ed è sopravvissuta tranquillamente) nella storia dell’umanità, così come quella donna non è stata l’unica a morire di parto in quegli anni in Italia. Africo è sorto, come gran parte dei comuni interni calabresi, intorno agli insediamenti dei monaci basiliani che lì vivevano in origine nelle grotte e che, successivamente, con l’arrivo di altri dominatori stranieri divennero i gestori di un’economia fatta di agricoltura e pastorizia. Un modo di vivere naturale (dalla natura ricavavano sostentamento e medicinali) che oggi non sarebbe concepibile e comprensibile ma al quale, se continuiamo nella nostra corsa verso lo sviluppo infinito, saremo costretti a tornare.
L’altro tema del film è la povertà. Anche qui occorre intendersi. Se per povertà si intende non avere la corrente elettrica, le scarpe, la strada, le riviste, una casa ben arredata ed altre modernità simili gli abitanti di Africo erano poverissimi. Se per povertà si intende morire di fame qui ci sarebbe da ridire. Il cibo genuino e sufficiente (i maiali, le capre, il formaggio, il pane, l’acqua, la frutta, le erbe spontanee) ma anche lo spazio, il tempo, il silenzio, la solidarietà e la tranquillità non mancavano, tutti lussi che in pochi, tra gli abitanti delle grandi città, ieri come oggi, potrebbero permettersi. La misura (sostenibile) del borgo contro la dismisura (insostenibile) della grande città emergono con l’arrivo della maestra che sceglie Africo per superare un momento di crisi, il prodotto della dismisura nella quale vive. Fugge da quella modernità (lei si dalla povertà spirituale e dall’isolamento relazionale) alla ricerca dell’umanità, per guarire dall’alienazione e si ritrova anche lei a camminare a piedi nudi per le strade del borgo, a contatto con la sua terra e i suoi abitanti.
In mezzo le due istituzioni che, ieri come oggi, si contendono la fiducia dei residenti di questi territori: lo Stato e l’Antistato, impersonificati nel film dal Prefetto e da Don Totò, il primo attraverso le leggi e il secondo attraverso la prepotenza. Da questi due attori, ieri come oggi, i calabresi dipendono, prima psicologicamente e poi fisicamente e da entrambi hanno ricevuto e continuano a ricevere sempre le peggiori delusioni per la loro (dei calabresi) incapacità di condividere intenti e obiettivi. La strada alla fine non viene terminata perché gli abitanti (demotivati e disarticolati da entrambe le istituzioni) desistono dall’impresa.
Questa storia insegna (o dovrebbe insegnare), ieri come oggi, che basterebbe semplicemente tornare ad avere la misura delle cose, a vivere del necessario piuttosto che del superfluo e riconoscere ciò per cui vale veramente la pena di vivere: la natura, le relazioni, il cibo, l’arte, il sapere (inteso come saggezza e non come nozionismo), il silenzio ad esempio. Basterebbe seguire la vocazione propria e del territorio nel quale si nasce ed essere consapevoli che non esistono le condizioni ideali per vivere, esistono le condizioni possibili, quelle definite innanzitutto da madre natura e con quelle, alla stregua di un allievo di un corso di sopravvivenza, occorre darsi da fare per costruire le migliori condizioni possibili.
Alla fine gli abitanti di Africo vengono evacuati dallo Stato in seguito ad un alluvione, una storia nella storia che il film non racconta. Sradicati dal loro luogo di origine, nonostante le obiezioni avanzate da Umberto Zanotti Bianco, ambientalista e politico italiano dell’epoca, e da una parte della stessa popolazione che assieme avevano individuato un luogo vicino all’originario centro abitato per costruire la nuova Africo, furono dislocati in varie località e in particolare nel comune di Bianco. Fu allora che cominciò la vera emigrazione, quando senza terra (nel 1958 Antonio Marando scrisse che con la fondazione di Africo Nuovo era sorto «il primo paese italiano senza territorio”) e senza più radici cominciarono a vivere, loro malgrado, di assistenzialismo, dell’elemosina statale, come ancora oggi avviene per tanti altri calabresi, il brodo di coltura ideale per la proliferazione dell’accidia, della ‘ndrangheta e della corruzione.
Il vero dramma non è che questo sia accaduto all’epoca ma che, ancora oggi, ci sia qualcuno che, uscendo dal cinema, continua a considerare quella una storia di povertà e isolamento.

Massimiliano Capalbo

Commenti

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4 commenti
  1. Concetta
    Concetta dice:

    Vedendo questo film oggi con tutte le comodità del momento sembra che ad Africo erano poverissimi.
    In effetti a quel tempo quella era l evoluzione sicuramente anche limitata dalla ndrangheta ma lenta evoluzione.

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  2. Giustiniano Rossi
    Giustiniano Rossi dice:

    I nostri paesi calabresi sono sulle colline e le montagne anche come conseguenza di dieci secoli di pirateria
    Hanno accolto anche schiavi fuggiaschi
    Paura diffidenza autosufficienza violenza ospitalita frane e da sempre i terremoti

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  3. Andrea Morabito
    Andrea Morabito dice:

    Alla cortese attenzione del Sig. Capalbo
    Buongiorno, con molto ritardo, il suo articolo su “Via dall’Aspromonte” è del 2019, vengo a darLe alcune delucidazioni in merito a ciò che scrive sul Film ma sopratutto su alcune sue considerazioni in merito al Paese “Africo”. Il libro, e di conseguenza la sceneggiatura del film, non raccontano affatto “un fatto di cronaca realmente accaduto negli anni ’50”. La decisione di attivarsi come popolo, a costruire una strada per il mondo civile è una metafora delle condizioni in cui è lasciato un popolo per secoli, abbandonato a se stesso. La morte della donna, durante il parto, non è che l’ennesimo caso connesso strettamente alla mancanza di quelle vie di comunicazione ; condizione che per Africo si mantenne fino al quel fatidico ottobre 1951. Partorienti, malati, feriti morivano per strada prima di arrivare all’ospedale più vicino che era Melito di Porto Salvo ( Guardi su Google)su barelle come quelle da lei viste nel film. La mancanza di strade nel corso degli anni ha “ucciso” molta gente di Africo, anche Carabinieri in servizio colà, postini che per raggiungere Africo , anche d’inverno dovendo percorrere tutto il tragitto a piedi e quando incappavano in tormente di neve molte volte persero l’orientamento e morirono assiderati. Lei scrive ” Gli abitanti di Africo, in realtà, non erano isolati, semplicemente impiegavano più tempo per spostarsi di altri…” Non so se Lei sia mai stato in quelle contrade per vedere di persona le forre da cui gli africesi dovevano passare per raggiungere il paese più vicino, per non dire raggiungere la ferrovia: per i tempi di percorrenza la lascio alla lettura di Zanotti Bianco, Adolfo Rossi, Manlio Rossi Doria ed altri. Comunque, per concludere il discorso isolamento, che Lei non conoscendo il posto esclude ci sia mai stato, Le racconto, brevemente, la vera storia della strada, che il libro e il Film romanzano. Africo, aveva una frazione dirimpetto al luogo dove era ed è appollaiato nel cuore dell’Aspromonte, Casalnuovo, i due Centri in linea d’aria non sono distanti più di un Km, ma per arrivare dall’uno all’altro paese ci sono almeno 4 Km di strada, se una mulattiera può essere chiamata strada. Africo, era collegata col mondo civile, dalla solita mulattiera che dal paese si immetteva nei boschi e raggiungeva i campi di Bova e da li scendeva a Bova Superiore ( 10 Km circa) e quasi 12 da li a Bova Marina. Fino agli anni quaranta dai Canpi di Bova a Bova Superiore era ancora mulattiera. l’apertura di cantieri rimboschimento portò ad un miglioramento con un strada sterrata ma carrozzabile. Per i mie compaesani non cambiò nulla, la strada sempre a piedi la percorrevano fino a Bova. Per la frazione di Casalnuovo era un po diverso, ma non di molto. dal paesello si poteva “facilmente” raggiungere Motticella e quindi Bruzzano e Brancaleone. La strada era più corta, ma sempre mulattiera e non meno di 6 Km. C’era però la possibilità di accorciarla di 1 Km al massimo di uno e mezzo. Non siamo in mezzo alla foresta Amazzonica, ma in pieno Aspromonte e quindi i problemi legati alla strada sono conosciuti dalle autorità competenti; difatti la strada è oggetto di progetti dal lontano 1881 e successivi tra l’inizio del secolo XX e 1937, tutte finanziate ma mai appaltate. Stanchi di stanchi
    di tante chiacchiere, i casalnovesi (non gli Africesi) si decisero a fare da se. Mi onoro nel comunicarLe che i principali organizzatori non che finanziatori del Progetto furono La famiglia Morabito di cui io sono un discendente. Quel piccolo pezzo di strada fu aperta a colpi di piccone dalla maggior parte degli abitanti di Casalnuovo, che parteciparono entusiasti alla sua realizzazione, e con l’uso di dinamite. Altra strada di sbocco alla marina per Africo e Casalnuovo e Samo e poi dopo qualche chilometro Bianconuovo. Anche qui malattiere e ore ed ore di cammino. Se non è isolamento questo dica Lei; la questione per loro non è semplicemente il tempo che ci mettevano a percorrere quelle mulattiere:in più tempo di altri, è per loro e lo e stato da sempre una questione di vita e di morte e la donna incinta che muore è la metafora di quella vita. Per quanto riguarda la povertà di Africo, non può liquidarla dicendo il cibo genuino è sufficiente, e mi scusi se ho capito male, e compensato dallo spazio, il tempo, il silenzio la solidarietà e la tranquillità. Tutto questo però non riempie la pancia. Le condizioni economiche negli anni quaranta non sono più quelli trovati dall’ANIMI di Zanotti Bianco nel 1927, ma non sono ancora al pari delle contrade circostanti. Negli anni venti le condizioni erano pessime al punto da commuovere il mondo; Le posso suggerire una lettura della relazione di un funzionario della Prefettura di Reggio Calabria del dicembre 1927; si procuri dei fazzolettini di carta potrebbero scendergli delle lacrime di sconforto leggendo, e l’inchiesta di Zanotti Bianco e Rossi Doria del 1928, anche se in parte trascritta nel racconto Tra la perduta Gente.
    Non mi fraintenda, non critico il suo articolo; lo trovo fatto molto bene perchè motiva le sue convinzioni. Distinti saluti da Africo Nuovo, Andrea Morabito

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    da l

    Rispondi
    • Massimiliano
      Massimiliano dice:

      Gentile Andrea,

      la ringrazio per il suo commento all’articolo e per i suggerimenti di lettura che certamente non mancherò di approfondire.
      E’ vero, non sono ancora stato ad Africo in particolare ma sono stato a Roghudi, Gallicianò, Nardodipace ed altri comuni sperduti, a cavallo tra Aspromonte e Serre, che fanno comprendere molto bene le distanze dalla marina e le difficoltà del territorio (essendo tra le altre cose una guida escursionistica ho attraversato personalmente a piedi questi luoghi).
      Ma non ho bisogno di andare nel luogo specifico per fare una riflessione di carattere filosofico più che infrastrutturale.
      In Calabria si muore ancora oggi, prima e dopo essere arrivati in ospedale, nonostante disponiamo di strade e mezzi.
      La realizzazione di infrastrutture per decenni considerate strategiche, come l’autostrada SA-RC, non ha ridotto né l’isolamento né ha incrementato il cosiddetto “sviluppo” della regione. Ho l’impressione che le voci “svianti” del progresso a tutti i costi mietano vittime ancora oggi e che le infrastrutture siano, ieri come oggi, il problema minore di questa regione oltre che un ottimo alibi.
      E’ su altro che dobbiamo indirizzare la nostra attenzione e io nel mio articolo ho tentato di indicare verso dove.

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