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Quel riconoscimento reciproco che manca

Nella notte tra sabato e domenica scorsi fiumi di fango sono venuti giù dal Monte Moscio, la cima che sovrasta la scogliera di Copanello di Stalettì, travolgendo case, strade e macchine di passaggio. Una donna, che si trovava a passare di lì nella fase più intensa della perturbazione, ha rischiato di finire sepolta viva nel fango assieme alla sua auto. Siccome conosco molto bene quel monte, avendolo scalato personalmente nel 2014, dalla base alla cima, non mi sono stupito più di tanto, conosco la catena di relazioni che hanno portato a tale disastro che sfuggono ai più.
Monte Moscio è un promontorio molto suggestivo e ricco di storia che, come scrivevo otto anni fa, “avrebbe dovuto consentire alle popolazioni che ci vivono attorno di prosperare senza grandi sforzi” se opportunamente rispettato, valorizzato e tutelato. Invece ogni estate, puntualmente, è preso di mira dagli incendi. Non ricordo negli ultimi dieci anni una sola estate in cui non sia stato incendiato in qualche suo punto, tanto che mi sono sempre chiesto come facessero a dormire sonni tranquilli i residenti di alcune case che vi sorgono alla base. Dalla cima del monte era possibile, almeno fino al 2014, effettuare una meravigliosa escursione, partendo da villa Ciluzzi e finendo nei pressi dell’ex cementificio e, volendo proseguire, anche un percorso ad anello, riprendendo un’antica strada romana che risale alle spalle della torrefazione Guglielmo e si inerpica fino a ritornare nel paese di Stalettì, nel punto dove sorgono i bei ruderi della chiesa madre medievale. Un percorso estremamente panoramico che nulla ha da invidiare ai percorsi delle Cinque Terre o di altri luoghi più famosi. Solo che lì sono presi d’assalto dai turisti mentre qui c’è il deserto. Occorrerebbe, però, effettuare degli interventi di sistemazione del percorso, (interessato da alcune frane all’epoca immaginiamo oggi), dotandolo di staccionate in legno, nuove piantumazioni di alberi per consolidare i costoni, cartellonistica e quant’altro possa consentire agli escursionisti di percorrerlo in sicurezza. Stiamo parlando di un investimento che, nello stato in cui si trovava nel 2014, si sarebbe aggirato attorno ai 20-30 mila euro, una cifra ridicola se paragonata a quanto si spende ogni anno per feste, sagre e altre amenità simili e soprattutto ai danni che registriamo oggi e che registreremo nei prossimi anni. Un investimento, è proprio il caso di considerarlo tale, che avrebbe dato lavoro a qualche operaio forestale e a qualche giovane guida locale, a ristoratori e albergatori, che avrebbe restituito ai calabresi e ai turisti un’attrazione meravigliosa e che avrebbe prevenuto il disastro che registriamo oggi. Nulla di tutto ciò, ovviamente, è stato mai fatto. Ogni anno qualcuno si diverte a incendiarlo, rendendo il percorso sempre più pericolante, il monte frana e ci ritroviamo ad ogni pioggia a dover spendere cifre da capogiro per rimettere in sesto strade, case e altri contesti urbani. Chi mi conosce sa che non ce l’ho con la Pubblica Amministrazione ma con i residenti che sono privi di spirito di iniziativa. Ci vuole abilità al contrario, infatti, per non riuscire a ricavare nulla da tutto ciò ma, soprattutto, per riuscire a trasformarlo addirittura in un pericolo. Bisogna aver instaurato una mentalità estremamente parassitaria perché nessuno avverta l’esigenza di muovere un dito per valorizzarlo (e badate bene che il reddito di cittadinanza non c’entra nulla, qui parliamo di atteggiamenti consolidati da decenni). Bisogna essere veramente ciechi per non vedere i tesori che ci circondano. Bisogna essere talmente provinciali per non riuscire a paragonare le nostre ad altre attrattive meno belle ma meglio valorizzate e promosse in altri territori. Bisogna avere in testa altre logiche perdenti per lasciare che tutto questo rovini a valle. Qui non si tratta né di soldi (ne sono arrivati e ne arriveranno purtroppo ancora tanti in Calabria), né di competenze (stiamo parlando dell’abc, di cose che negli anni ’70 erano considerate banali).
Non viviamo più in simbiosi col paesaggio, per noi l’ambiente è uno spazio al nostro servizio che può e deve essere modificato per assecondare i nostri desideri, i nostri capricci. E’ più difficile, invece, assecondarne la vocazione, riconoscerne la natura e le caratteristiche e rispettarle. Tra le lamentele che solleviamo nel corso della nostra esistenza, specie noi calabresi, c’è quella di non essere compresi, valorizzati, riconosciuti. Emigriamo soprattutto per questa ragione. E noi invece? Siamo capaci di riconoscere in ciò che ci circonda un valore, un significato, un senso? Forse se cominciassimo a farlo, come per magia, scopriremmo che è in quel riconoscimento, nel riconoscimento di ciò che è fuori da noi che ritroveremmo anche il nostro. Se quel sentiero è abbandonato e i residenti sono costretti a emigrare è perché è mancato il riconoscimento reciproco. Secondo lo psicologo russo A. R. Luria “le immagini sensuali che provengono dal mondo che ci circonda fungono da tramite al pensiero per la maggior parte di noi“. Se i nostri pensieri sono piatti e banali è perché non ci lasciamo affascinare dalle immagini che ci giungono dal paesaggio in cui viviamo. E, soprattutto, quando la visione è dall’alto, tutto appare più chiaro. E’ per questo che il sentiero di Monte Moscio può essere una straordinaria metafora di tutto ciò. “Nell’individualità di ciascuno di noi si riflettono i mondi di cui abbiamo esperienza” scrive René Dubos. Gli antichi greci lo avevano capito, noi ancora no.
Lo scorso weekend monte Moscio non ce l’ha fatta più a trattenere i suoi massi, la sua terra. Disconosciuto, ignorato e privato delle piante e delle loro radici, si è lasciato andare dopo una notte di pioggia torrenziale. Per i residenti è solo un punto elevato dove costruire la propria residenza per goderne il panorama, nulla di più. Ma se oggi a Copanello di Stalettì si spala fango è perché nessuno si è preso cura di ciò che stava a monte. La battuta che più frequentemente mi viene rivolta da amici e conoscenti che visitano le mie attività imprenditoriali, riguarda il fatto che scelgo di aprirle sempre in posti lontani dal mare, difficili da raggiungere. Spero che, alla luce di quanto accaduto in questi giorni, le ragioni appaiano loro più chiare.

P.S. resto a disposizione di residenti e/o amministratori di Stalettì interessati a prendere in seria considerazione la possibilità di rimettere in sesto il suddetto sentiero, qualora servisse consulenza professionale al fine di trasformare quel percorso in un’attrattiva ambientale e turistica, sostenibile e rispettosa dell’identità e della morfologia del luogo.

Massimiliano Capalbo

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