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Sanremo e il paradosso della libertà

Ho guardato il Festival di Sanremo, non tutte le sere e nemmeno fino in fondo, ma il necessario per poterne parlare con cognizione di causa. Perché è un fenomeno di costume che dice molto di più sul nostro paese di tante analisi socio-psico-pseudo-politiche che leggiamo o ascoltiamo sui media. Il problema non sta nel guardare o non guardare un programma ma nel possedere la capacità critica di interpretarne il vero messaggio di fondo, quello subliminale, che arriva al di là delle apparenze e degli effetti speciali che vengono usati per camuffarlo e farlo apparire più accettabile.
La dissonanza cognitiva che caratterizza i ragionamenti di una fetta consistente delle menti di questo paese, in questo particolare momento storico, non poteva risparmiare il festival, ovviamente. In queste serate abbiamo assistito, infatti, alla rappresentazione plastica del paradosso della libertà in cui viviamo. La maggior parte delle persone è convinta che il messaggio trasmesso dal festival quest’anno sia stato quello della libertà: di essere se stessi, di esprimere la propria identità, di abbattere muri e steccati. Un messaggio comunicato attraverso i testi delle canzoni, gli abiti, gli ammiccamenti, i monologhi, gli ospiti. In realtà questo apparente messaggio di libertà era in forte contrasto con la liturgia, la gestione e la conduzione del festival e anche con la realtà che esiste fuori da quel teatro, che restano sempre gli stessi. La libertà è circoscritta all’interno del recinto costruito dal conduttore e dalla dirigenza del festival, un recinto non solo fisico ma anche culturale all’interno del quale in tanti si illudono di essere liberi di esprimersi.
Il festival è la metafora del nostro paese che fa credere alle persone di essere libere solo all’interno dei recinti che le istituzioni e le multinazionali hanno costruito e costruiscono quotidianamente attorno a noi. La libertà è una gentile concessione del potere negli spazi, nei modi e nei tempi scelti da chi lo esercita. Il festival è la rappresentazione plastica del potere che, come nel Medioevo, si mostra e viene ostentato ad ogni occasione. I dirigenti sono in prima fila per controllare ed essere ossequiati, il conduttore che ha ricevuto il potere dal dirigente lo esercita sui suoi giullari di corte (artisti e ospiti) che sono stati scelti da lui nella sua cerchia di amicizie (e che non perdono occasione per ossequiarlo e ringraziarlo) per intrattenere le masse ma anche per accrescere il lustro della corte e raggiungere i risultati economici che l’intero circo si prefigge. Il conduttore-sovrano è accompagnato dalla moglie (la regina) e dal figlio (probabile futuro erede al trono) che non solo vengono identificati come tali ma sono parte attiva dello spettacolo. E’ il trionfo del familismo amorale in prima serata, l’arretratezza culturale italiana che si cela nel backstage viene venduta come progressismo, come emancipazione collettiva sul palco. Un capolavoro di manipolazione della realtà da far invidia ai migliori esperti di marketing che, in questi giorni, sono riusciti a trasformare lo sponsor principale della manifestazione (noto inquinatore mondiale) in un’azienda green.
Il Festival lascia trasparire il vecchio e intramontabile schema del potere in Italia, verticistico, ereditario, arretrato, stantio, rafforzandone la legittimità e la plausibilità. Mentre tutti discutono della superficie (l’abito, la canzone, il monologo) il messaggio subliminale fa il suo lavoro rafforzando lo status quo, creando una separazione tra chi è riuscito ad entrare nelle grazie dei sovrani e chi no, creando in chi aspira a far parte della corte il desiderio, illudendo i più che quella può essere una ragione per sacrificare una parte della propria esistenza. Salvo poi scoprire, una volta raggiunto il successo, di essere solo una pedina nelle mani di una casa discografica, l’ingranaggio di un’industria che vive di apparenze e che consuma sogni e ambizioni sull’altare dell’intrattenimento.

Massimiliano Capalbo

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