Ieri sera un servizio de “Le Iene”, a firma di Fabio Rovazzi, ha focalizzato l’attenzione sullo scandalo Cambridge Analytica che ha visto coinvolto il fondatore di Facebook, Mark Zuckerberg. La vicenda, in realtà, ha come protagonista principale un tale Aleksandr Kogan autore di una delle tante app che gli utenti di Facebook possono installare e utilizzare, alla stregua di videogiochi come Candy Crash, che si chiama “This is your digital life”. Una volta installata quest’app ha permesso a Kogan di accedere ai dati di milioni di utenti. Un’operazione che avviene quotidianamente, quando installiamo o aggiorniamo una qualunque app presente sul nostro smartphone o quando accediamo a qualunque sito Internet che fornisce un servizio, compreso quello de “Le Iene” che, per consentirci di vedere in diretta la trasmissione ci chiede di registrarci con una mail o (meglio ancora) direttamente tramite il nostro profilo Facebook.
Kogan avrebbe poi venduto, ad insaputa di Facebook, tali dati alla Cambridge Analytica che, come tantissime altre società esistenti nel mondo, si occupa di costruire campagne di comunicazione politica o commerciale e avrebbe utilizzato tali dati per la campagna elettorale di Donald Trump. Il passaggio di questi dati sarebbe avvenuto in violazione dei termini d’uso di Facebook.
Il messaggio che è passato sui media, invece, è stato come il titolo del servizio delle Iene: “Facebook ci spia!”. Infatti sembra che, per protesta, molti utenti abbiano oscurato il proprio profilo dal noto social network. Quello che ha perso in borsa è stato Zuckerberg che è stato costretto a chiedere scusa pubblicamente. Ancora una volta la colpa è ricaduta sul mezzo e non sull’uso che ne fanno gli uomini. Certo, la responsabilità di Zuckerberg è stata quella di non aver vigilato ma pensate che sia possibile oggi vigilare su milioni di dati personali che passano di computer in computer in tutto il mondo e che possono tranquillamente essere accessibili da qualsiasi esperto informatico o programmatore abilitato a lavorarci su?
This is your digital life, potremmo affermare parafrasando il nome dell’app incriminata. Le scelte che compiano sui social network, infatti, sono monitorate in funzione della possibilità di indurci ad acquistare i prodotti/servizi più in linea con i nostri interessi che, ovviamente, non fa alcuna differenza se sono di carattere politico o commerciale, anche perché la distinzione tra le due cose è sempre più labile.
Il servizio di Rovazzi ha presentato la vicenda come il più grande caso di violazione della privacy della storia ma, a mio avviso, non ha centrato il problema.
Io non sono scandalizzato dal fatto che Facebook utilizzi i miei dati (che io volontariamente decido di rendere pubblici) per fare campagne commerciali o di altro genere, non sono scandalizzato dal fatto che le possa rivendere a società terze, perchè lo so, sta scritto nei termini d’uso che ho accettato. Sono, invece, indignato dal fatto che ci siano dei politici interessati ad acquistare questi dati per fare campagna elettorale (diffondendo fake news perchè le campagne elettorali sono piene zeppe di fake news) per truffare gli elettori, senza che questo sia stato chiaramente comunicato attraverso delle apposite condizioni d’uso come invece fa Facebook. Così come sono stupito dal fatto che un elettore possa, nel 2018, ancora lasciarsi convincere da una campagna elettorale online come è successo, per mezzo secolo, con le campagne elettorali televisive e cinematografiche. Dovrebbero saperlo anche i bambini che la pubblicità è, per definizione, ingannevole. Altrimenti si chiamerebbe informazione. Sono, infine, divertito dai partitici come la Boldrini che si indignavano e additavano Facebook come responsabile della diffusione delle fake news e organizzavano crociate contro i social network.
La sicurezza informatica, checchè ve ne dicano, non esiste. Ogni sistema può essere violato, basta sapere come. Questo vale per le banche, per i social network, per le istituzioni e così via. Così come non esiste un soggetto pubblico (scuola o altro ente) deputato a fornire agli utenti le istruzioni per l’uso della tecnologia. Ogni giorno adottiamo strumenti sempre più sofisticati e pervasivi di cui non conosciamo il funzionamento e le implicazioni ma che utilizziamo con superficialità perché affascinanti dalle strabilianti funzionalità. La nostra è una società sempre più vulnerabile perché si è affidata, e si affiderà sempre di più, alle macchine senza se e senza ma. This is your digital life ma in campagna elettorale questo, come altri argomenti che da qui a breve stravolgeranno la nostra vita (vedi il transumanesimo trattato da Report qualche giorno fa) non compaiono. Siamo ancora impegnati a litigare sul reddito di cittadinanza.

Massimiliano Capalbo

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