Un nuovo stare assieme è in seme
Una delle colpe che attribuiamo alla pandemia da Covid-19 è quella di aver impedito le relazioni umane, di averci allontanato dagli altri, di essere responsabile del nostro isolamento. Ma siamo proprio sicuri che sia così? Siamo proprio certi che prima del marzo del 2020 le relazioni fossero così inclusive e basate sul piacere di stare assieme, che fossero basate sull’empatia e sull’autenticità? Che avessero come obiettivo quello di conoscersi veramente e non fossero semplicemente funzionali al raggiungimento di altri scopi più materiali? Ma, soprattutto, che quello “stare assieme” fosse qualcosa di più del semplice ammassarsi di corpi in uno stesso spazio? Che fossimo attori e non semplici spettatori di uno spettacolo creato e messo in piedi da altri? Ho i miei dubbi.
Le librerie e le biblioteche, infatti, sono stracolme di testi di sociologia che parlano dell’atomizzazione dell’essere umano e dell’individualismo imperante nelle società post-moderne, dovuto non al Covid ma al modello economico e sociale dominante da tempo. Il nostro “stare assieme” pre-pandemico non era, dunque, molto diverso dal nostro “stare assieme” post-pandemico se non per una questione di distanziamento fisico tra i corpi. La separazione esisteva già e non era tanto fisica quanto mentale. Ed è quella separazione ad aver creato le condizioni ideali perché la paura potesse avere gioco facile. Quell’isolamento che ci vede le sere d’inverno sprofondati nel mobile più pubblicizzato, il divano, e davanti all’elettrodomestico più utilizzato, la tv (analogica o digitale che sia) ci rende più vulnerabili, perché quando l’attualità ti raggiunge non hai nessuno con cui confrontarti per accogliere criticamente la notizia, soprattutto se ti mancano gli strumenti per farlo. Quando si è soli davanti alla tv si è più facilmente influenzabili, si consuma di più, si coprono lo stress, i dispiaceri e le carenze d’affetto col cibo, con i farmaci, con la tecnologia e con tutti quegli “oggetti del desiderio” pensati appositamente, dai maghi del marketing, per adularci e conquistarci e mantenerci in una condizione di insoddisfazione permanente. Chi è felice, infatti, non consuma.
Le occasioni di socializzazione che la nostra società è in grado di mettere in piedi sono tutte legate all’esperienza di consumo. Ci si vede in un bar per consumare, ci si vede in discoteca per consumare, ci si vede al cinema per consumare, ci si vede a teatro per consumare, ci si vede allo stadio per consumare, ci si vede ad una mostra d’arte per consumare, ci si vede al museo per consumare. Non per incontrarsi, per accogliere l’altro.
Il bisogno che si avverte oggi, dunque, arriva da molto lontano, è un bisogno latente, represso, che ha semplicemente trovato nella pandemia un alibi per giustificarsi e un’occasione per emergere, per venire a galla, anche nelle sere d’inverno, fino a poco tempo fa considerate off-limits per uscire e incontrarsi. E’ un bisogno di riempire quel vuoto che le occasioni di socializzazione che la nostra società è in grado di creare hanno lasciato e continuano a lasciare nei partecipanti. E’ un bisogno di tornare protagonisti, di diventare attori e non semplici spettatori, è un bisogno di mettersi in ascolto per comprendere un pò di più l’altro e la sua diversità. Nuove forme di socializzazione stanno già nascendo e nasceranno, nuovi modi di “stare assieme”, sono in seme. Occorrerà solo attendere che passi l’inverno per poterle vedere germogliare.
Massimiliano Capalbo
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