Io sono molto più di quello che mi lega a te
“Non si emigra perché altrove si sta meglio, si emigra perché si pensa che altrove si stia meglio“. Questa frase di Verga dice molto di più di tante analisi circolanti sul problema delle migrazioni. Non sono le condizioni di partenza (miseria, guerre, persecuzioni) e neppure le condizioni di arrivo (benessere, lavoro, consumi) a determinare la decisione di migrare. La decisione sta nella mente, migrare è pensare che altrove ci si possa realizzare.
Non sono pertanto i fatti di cronaca, cui si dedicano sia i pro che i contro, la chiave della comprensione del fenomeno. Occorre capire il pensiero della migrazione. Occorre andare a quello che è stato il grande motore delle migrazioni di massa nel mondo contemporaneo, gli Stati Uniti.
Il grande economista Sombart nel 1905 fece un viaggio negli USA e, alla fine, disse che ciò che più lo aveva colpito era che in USA non era possibile dedurre dalla vita quotidiana e sociale la collocazione di classe degli americani. L’operaio, dopo il lavoro, deposta la tuta, indossava abiti borghesi e assumeva gesti movenze stili di comportamento che non erano diversi da quelli degli altri ceti sociali. In sostanza nel sociale perdeva la propria origine sociale, si liberava del proprio essere operaio. Diventava un altro.
Può sfuggire oggi l’importanza di questo fatto quando ormai, in tutto l’Occidente, i ragazzi sono indistinguibili uno dall’altro, hanno le medesime apparenze, non si può dedurre dal comportamento chi è figlio del ricco possidente e chi del lavoratore. Siamo americanizzati.
Non era così una volta. Quando ero bambino potevo ancora capire dal vestito dai gesti dalle parole il ceto sociale di appartenenza di ogni mio compagno di classe.
In USA si diventava altro da quello che si era quando si era entrati. Il self made man si contrapponeva alla consuetudine europea di derivare il figlio dal padre. Qualis pater talis filius, più una condanna a vita che un giudizio.
In USA lo sradicamento tipico del capitalismo si è incontrato con il desiderio di immense masse di uomini di diventare altro da quello che erano. Non importa che non fosse possibile a tutti, l’illusione era alla portata di tutti. Nasceva appositamente quell’industria delle illusioni (Hollywood e i media) che ha americanizzato il mondo più della stessa politica. Voler respingere i migranti e al tempo stesso lavorare a espandere l’industria delle illusioni nel mondo intero significa non aver capito niente perché è l’industria delle illusioni che induce a pensare che “altrove si stia meglio”. Al tempo stesso è insensato, come fanno molti anticapitalisti, condannare le illusioni e lavorare poi ad accogliere i migranti, è come accogliere in un inferno chi ne è fuori.
Industria delle illusioni e migrazioni sono strettamente collegate e alla base del collegamento c’è un millenario movimento sotterraneo che porta l’essere umano a non ripetere la propria origine, a voler diventare diverso dalle condizioni di nascita. “Non sappiamo chi diventeremo” diceva l’apostolo Giovanni, e Gesù alla madre: “donna che cosa ho io in comune con te? Non sai tu che il padre mio…..“. Ovvero: Io sono molto di più di quello che mi lega a te. E’ una frase che potrebbe dire qualsiasi figlio ai propri genitori: io sono molto di più di quello che mi lega a voi. La prima migrazione dovrebbe essere, se si vuol realizzare la propria unicità, quella dalle proprie origini. Così anche noi occidentali siamo chiamati ad emigrare, ad uscire dalla terra dei padri.
Crescono in occidente giorno dopo giorno uomini e donne che non si riconoscono più nelle forme di vita occidentali. Io ne incontro tanti. Emigreremo in forme del tutto inedite e molti non se ne accorgeranno.
Giuliano Buselli
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