Quelle due lezioni dagli schiavi-redenti di Rosarno
Ogni anno la Calabria cerca in tutti i modi di far parlare (male) di sé, ed anche quest’anno sembra esserci riuscita. Mentre negli anni passati abbiamo sempre dovuto attendere l’imminenza della stagione estiva per mettere in atto la nostra “attività di promozione turistica”, quest’anno abbiamo pensato bene di giocare d’anticipo. A soli sette giorni dall’inizio del 2010, infatti, con la miserabile vicenda di Rosarno siamo subito saliti alla ribalta delle cronache internazionali spiazzando tutti.
Mancano poche settimane all’avvio della BIT (Borsa Internazionale del Turismo) di Milano e la Calabria ha già provveduto a veicolare il proprio spot pubblicitario, gratis. Il tema dello spot: l’accoglienza. Le cronache ci raccontano di una regione inospitale che sfrutta la manodopera extracomunitaria per la raccolta delle arance, riducendo in schiavitù migliaia di giovani africani che, arrivati al punto di massima sopportazione, reagiscono mettendo a ferro e fuoco la cittadina di Rosarno per alcuni giorni. Poco importano i distinguo, il messaggio è già passato. Le immagini della guerriglia urbana hanno fatto il giro d’Europa e improvvisamente ci si è accorti della presenza spropositata di questi immigrati che vivevano, in migliaia, da tempo in condizioni indescrivibili: in vecchie fabbriche abbandonate, in silos, in baracche costruite con tronchi e fogli di cellophane, alla periferia di Rosarno, lontano dagli occhi dei suoi abitanti. Una manodopera sfruttata per pochi euro dai caporali locali, strettamente legati alla n’drangheta ed alla criminalità locale. Nulla di nuovo sotto il sole verrebbe da dire. E invece no. Qualcosa di nuovo è accaduto, qualcosa di molto importante. Gli schiavi-redenti di Rosarno, infatti, hanno dato una doppia lezione ai calabresi e al resto degli italiani che non dimenticheremo facilmente e le cui ricadute sono ancora tutte da valutare. La prima lezione l’hanno data a tutti quei calabresi che da decenni preferiscono convivere con la n’drangheta piuttosto che ribellarsi. Qualcuno si è scandalizzato perché, dicono, hanno reagito in maniera spropositata. Ma una ribellione è una ribellione, non altro. Altrimenti la chiameremmo diversamente. Questi giovani extracomunitari hanno compiuto quel gesto estremo che i calabresi non hanno mai osato compiere, quel gesto estremo che potrebbe liberarli dal cancro che li opprime e che può essere mosso solo da un bisogno estremo. Ribellandosi, gli schiavi di Rosarno hanno dimostrato di avere una dignità e un coraggio di cui i calabresi non sembrano dotati. Non hanno avuto paura neanche delle pallottole, mossi dalla disperazione e a mani nude hanno reagito. Perché loro l’hanno fatto e i calabresi no? Perché non avevano nulla da perdere. I calabresi, invece, non si ribelleranno alla n’drangheta fintantoché avranno qualcosa da perdere, i propri piccoli privilegi e fintantoché gli equilibri che essa ha determinato sul territorio permarranno. Mentre gli extracomunitari non avevano nessuno che potesse mediare tra loro e la n’drangheta, i calabresi trovano quotidianamente il politico di turno che fa da cerniera, che in cambio della propria elezione (perché anche lui sovente è un disperato) appoggiata spesso dalla n’drangheta (quando non espressione diretta), dà al cittadino quel contentino, che spesso coincide con un posto di lavoro precario, e alla n’drangheta gli appalti e i finanziamenti per continuare a fare affari e creare quegli stessi posti di lavoro necessari a garantire un altro giro di giostra. I calabresi, allevati da generazioni a chiedere l’elemosina, hanno barattato da tempo la libertà con la sottomissione in cambio dello stretto necessario per tirare a campare. Gli schiavi di Rosarno, invece, hanno scelto di redimersi. Il termine redimere deriva dal latino e significa ricomprare, riscattare da servitù, da vincoli. Se così non fosse i calabresi, affamati, sarebbero già davanti ai cancelli delle ville dei mafiosi di cui conoscono nomi e indirizzi armati, così come gli extracomunitari, di spranghe e bastoni. Ma così non è e non sarà fintantoché questi equilibri e questo circolo vizioso non saranno spezzati. Adesso gli extracomunitari di Rosarno sono andati via, in parte deportati altrove, in parte di propria spontanea volontà e hanno lasciato il deserto. Qualcuno ha affermato, con una certa dose di soddisfazione, che adesso i luoghi dove questi disperati erano accampati sono stati ripuliti, che è tornato l’ordine. Beh si, peccato però che quei luoghi fossero solo una minima parte del disordine più generale che regna in quei territori. Chi ha affermato ciò, infatti, evidentemente non ha mai fatto un giro per le strade di Rosarno, per ammirare il disordine (soprattutto edilizio) che vi regna da sempre e che non si discosta molto dall’orrenda visione di quegli accampamenti. Solo che, mentre per la bidonville degli extracomunitari è stata sufficiente una ruspa per ridare dignità ai luoghi, per la cittadina calabrese l’impresa si presenta molto più ardua. Andando via, gli extracomunitari di Rosarno ci hanno dato una seconda lezione, per la precisione una lezione di catechismo a noi pseudo-cristiani pronti a batterci per difendere il crocifisso nelle scuole. Loro, che per lo più sono di religione islamica, hanno seguito il Vangelo: “Dovunque entriate in una casa, rimanetevi finché non sarete partiti di lì. Se in qualche luogo non vi accogliessero e non vi ascoltassero, andatevene e scuotete la polvere sotto i vostri piedi come testimonianza per loro” Mc 6,7-13 Ma i caporali-cristiani non leggono il Vangelo, si limitano a stare in prima fila nelle processioni delle proprie cittadine, si limitano a portare in spalla le proprie Madonne per mari e per monti e a esternalizzare (attraverso riti che appartengono più al regno del folklore che a quello della spiritualità) la propria “fede” a fianco di una gerarchia ecclesiastica, quella calabrese, troppo tollerante quando non connivente che sa ma che continua a tacere e che quando (raramente) tenta di reagire viene trasferita altrove. Adesso nessun calabrese raccoglierà quelle arance a quel prezzo, i caporali-cristiani allora busseranno alla porta del politico locale che intercederà presso il Governo centrale o la Comunità Europea per ottenere quelle sovvenzioni che permetteranno di continuare a tenere in piedi le loro, questa volta, di baracche. Le arance cadranno dagli alberi e marciranno per terra. Che importa. Tanto loro saranno indennizzati comunque e quindi possono anche permettersi di mandar via gli schiavi. Ma è assieme a quelle arance che continueranno a marcire le possibilità di un’altra Calabria.
Massimiliano Capalbo
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