Il lavoro si trasforma, noi no
L’avevo ascoltato nel corso di un incontro organizzato a Scolacium un mese fa e (nonostante gli applausi ossequiosi del pubblico presente) mi aveva profondamente deluso. Leggo ora un’intervista pubblicata sul Web e ne ho la conferma: Domenico De Masi, classico intellettuale deluso dalla sinistra, sembra più alla ricerca di un partito (vincente) disposto a dare spazio al suo ego, che di una nuova (intesa come innovativa) teoria sul lavoro.
Ero andato, quel giorno a Scolacium, per sentire parlare al futuro e ho sentito parlare al passato remoto: di Berlusconi e della Gelmini ad esempio. Solo un piccolo accenno, verso la fine dell’incontro, alla geniale idea per ridurre la disoccupazione che adesso leggo in questa intervista: ovvero ridurre le ore di chi lavora a favore di chi non lavora.
“Lavorare gratis lavorare tutti” è il titolo del suo ultimo libro perché un lavoro per lui vale l’altro. Un lavoro è fatto di ore che possono essere cedute, di mansioni che devono essere svolte, non c’è spazio per le passioni, per i talenti, per le motivazioni, per le specificità. L’uomo continua ad essere considerato solo un ingranaggio della catena di montaggio del lavoro che le istituzioni continuano ad alimentare e alla quale egli stesso si sottomette volontariamente tutti i giorni. E poi, a quale lavoro si riferisce De Masi? A quello delle multinazionali o a quello delle piccole e medie imprese? A quello virtuale del Web e delle borse o a quello concreto del contadino?
Il lavoro non scompare, semplicemente cambia, si trasforma, col cambiare della società. Il lavoro non manca, specialmente al Sud, siamo noi incapaci di vederlo. Il lavoro non si trova come i funghi nel bosco, si crea. Siamo noi che non abbiamo voglia di cambiare, siamo noi che non amiamo i sacrifici, siamo noi che non abbiamo creatività, siamo noi che amiamo stare nei recinti creati dalle istituzioni, nelle nostre zone di comfort, metterci in fila per il concorso, attendere che ci pensino i governanti, e così via. E De Masi rilancia il reddito di cittadinanza. La pigrizia che abbiamo nel reinventarci il lavoro, in un mondo in continua trasformazione, è la stessa che hanno gli intellettuali e i partitici nell’entrare nel merito dei problemi. Il lavoro si trasforma, noi no.
De Masi suggerendo solo tecnicismi, rimanda alla partitica un compito (quello di creare lavoro) che non appartiene alla partitica, è qui l’errore di fondo. Per creare lavoro occorre stimolare nelle popolazioni lo spirito di iniziativa e le passioni che sono state uccise da secoli di assistenzialismo e privilegi. L’impresa è prima umana e poi diventa economica. La politica, che ieri governava i cambiamenti, oggi li subisce. Una multinazionale ha più potere di un governo. Non è un caso se Renzi, nell’autunno scorso, sbavava davanti all’arrivo della Apple a Napoli.
Il lavoro poi non aumenta, anche dove questo spirito di iniziativa sta rinascendo, principalmente perché è stato trasformato in un costo dallo Stato. Dare 1000 euro al mese ad un dipendente significa aggiungerne altri 600 da dare alle varie sovrastrutture che lo Stato ha creato per gestirlo. Ma questo lo sanno solo i piccoli e medi imprenditori che ogni giorno fanno i salti mortali per tenere in piedi le proprie aziende barcamenandosi tra tasse, balzelli e vessazioni simili. Chi crea lavoro in Italia viene punito invece che premiato. Gli imprenditori che restano in ufficio oltre l’orario di lavoro, e che De Masi nel corso dell’incontro a Scolacium ha definito per questo “delinquenti” (perché sottrarrebbero ore di lavoro ai disoccupati), in quelle ore possono finalmente fare gli imprenditori (inventare, innovare etc.) perché nel corso della giornata hanno dovuto adempiere a tutta quella serie di incombenze che, una burocrazia parassitaria e inetta pagata con i soldi delle loro tasse, si diverte a porgli davanti ogni giorno. L’imprenditore è schiacciato tra uno Stato socio occulto che arraffa il 70% del suo sudore e un lavoratore (spesso poco qualificato, e per qualificato non intendo in possesso del pezzo di carta) che pretende diritti (con l’appoggio dei sindacati).
I lavoratori, abituati al posto fisso, sono ancora convinti che i loro datori di lavoro siano dei privilegiati e la prima domanda che fanno in un colloquio di lavoro è: “quanto mi dai?” Ma quando gli chiedi “cosa sai fare?” (e non quale master hai fatto o laurea ai conseguito), “quale valore aggiunto sei in grado di darmi?” quasi sempre cala il silenzio. Finché i partitici e gli intellettuali, due categorie che non si sono mai misurate con la realtà del lavoro, continueranno ad occuparsene non solo non vedremo nuovi occupati ma il lavoro lo vedremo scomparire sempre di più.
Massimiliano Capalbo
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