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La felicità? Se ce l’hai dentro la trovi

Vedo in giro per la città enormi manifesti pubblicitari in cui si annuncia un corso di meditazione che insegna ad essere felici e il mio pensiero va ad Etty Hillesum, scrittrice ebrea prigioniera in un campo di concentramento nazista: scrive che tutti i giorni contempla un filo d’erba e percepisce una sensazione di beatitudine. Non aveva assolutamente niente ed era felice. E penso anche a quella giovane donna, appena sbarcata a Dublino, che mi scriveva tanti anni fa che, guardando di prima mattina la pioggia scendere sul vetro della finestra della camera, avvertiva una sensazione di felicità e quasi le salivano le lacrime agli occhi.
Insomma la felicità se ce l’hai dentro la trovi, se non ce l’hai dentro nessuna tecnica potrà consentirti di trovarla. La felicità non dipende infatti da quello che hai né dal luogo in cui sei. Amici che viaggiano molto nel mondo mi riferiscono che ci sono posti in Africa e in Asia in cui la gente, pur avendo poco o nulla, sembra felice di vivere, che si incontrano tante persone che hanno negli occhi entusiasmo e gioia.
Da noi invece esplodono i corsi e le pubblicazioni di felicità, vuol dire che ci sentiamo infelici. Infatti tutti i giorni leggo in fb espressioni di rancore, risentimento, rabbia, frustrazione, spesso conosco le persone e so che possiedono beni, hanno legami preziosi e sono al centro di cerchie familiari o amicali, eppure manifestano quella che a me sembra una specie di ostilità per la vita oppure vivono come se qualcuno gliel’avesse rubata. Si sentono privati di tutto.
In effetti: se non è in te la felicità di vivere, che cosa possiedi?
Un amico mi accenna a un libro di un “guru” italiano, un ex manager transnazionale che si è messo a insegnare alle nuove generazioni come spezzare i vincoli con il vecchio mondo di sottomissione e raggiungere libertà e felicità. Trovo in rete una sua intervista: a un certo punto afferma che “gli impiegati sono persone morte“, ovvero che chi lavora alle dipendenze di qualcun altro è un “morto”, insomma il “grande” guru sta giocando la vecchia meschina partita in cui ti fanno credere che tu vali qualcosa se gli altri non valgono. Dove avrà mai appreso il guru che ci sono vite “morte”? Solo chi sperimenta momenti di morte nella propria vita può parlare dei propri momenti di morte, nessun altro può dirlo, tanto meno un guru perché svela il suo lato oscuro.
Ci sono davvero vite che non valgono? E questo dire di vite che valgono e di vite che non valgono non nasce forse da un pensiero calcolante? E un pensiero calcolante non è forse un pensiero che uccide la vita? Un pensiero morto? Che valore posso mai avere se per attribuirmi valore lo devo togliere agli altri? Se per considerarmi pienamente vissuto devo pensare ad altri che non vivono pienamente la loro vita? Pensare di aver trovato la felicità perché altri sono infelici è il gioco dell’invidia, il gioco degli immaturi. Il pensiero vivente trova vita in ogni vita e semi di felicità ovunque.
Aggiungo, infine, per gli amici esoterici che attendono future “incarnazioni” della Terra, che Rudolf Steiner affermò in una conferenza che queste sarebbero state il frutto non degli illuminati né degli intellettuali ma di quelle categorie sociali che oggi lavorano alle dipendenze di altri.

Giuliano Buselli

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