L’illusione della conoscenza
Per diverse settimane abbiamo letto e ascoltato giornalisti, opinionisti, economisti, burocrati e partitici di vari schieramenti fare a gara per prevedere il futuro economico di questo o quel paese, l’efficacia di questa o quella manovra, le reazioni di questo o quel mercato. Si è trattato, come sempre accade in queste circostanze, di un teatrino tragicomico dove gli attori hanno fatto a gara a chi la sparava più grossa. Non è mai esistito nella storia delle nazioni (ma anche delle imprese) un business plan, una previsione economica, un piano di sviluppo, un documento economico e finanziario che abbia confermato le aspettative o le previsioni. Agli uomini piace sognare, inventare, immaginare. Avete mai sentito un capo di governo affermare che il prossimo anno il bilancio dello stato sarà catastrofico? La manovra in corso di approvazione è sempre la migliore possibile, quella che darà la svolta all’economia. Avete mai sentito l’amministratore delegato di una multinazionale dire agli azionisti che i loro prodotti/servizi non sfonderanno sul mercato e il fatturato non aumenterà nella prossima stagione? Ovviamente no. Ci piace credere a quello che ci raccontano.
Viviamo tutti un’illusione di fondo. E’ l’illusione della conoscenza che spinge le persone a compiere scelte di cui non immaginano (figurarsi se sono in grado di prevedere) minimamente gli esiti. L’illusione della conoscenza è proprio il titolo di un interessante libro, scritto a due mani da Steven Sloman e Philip Fernbach, due scienziati cognitivi americani che ci svelano come la più grande illusione dell’essere umano sia quella di credere di sapere. Molti esperimenti hanno dimostrato che non siamo in grado di spiegare nel dettaglio il funzionamento di semplici oggetti di uso quotidiano (dalla caffettiera alla zip dei pantaloni) figuriamoci avere contezza di avvenimenti storici accaduti molto tempo fa o fare previsioni sul futuro.
Da tempo sostengo che gli esperti non esistono (per vari motivi storici e fisiologici) e puntualmente leggo il sarcasmo di quelli che hanno, invece, una cieca fiducia nella formazione e nella tecnologia come mezzi per accrescere le competenze, fiducia che spesso nasce dalla convinzione che la mente sia assimilabile ad un computer. Questo equivoco (o falsa credenza), sorto parallelamente con la nascita della scienza cognitiva, ha visto esponenti del calibro di Alan Turing arrivare a domandarsi se le macchine fossero in grado di pensare. Ma il cervello non è un hardware e il pensiero non è il suo software. Il cervello non è nato per contenere molte informazioni ma per selezionare solo quello che gli serve e rimuovere tutto il resto.
La maggior parte delle persone è convinta che le scoperte più importanti nella storia dell’uomo siano state compiute da cervelloni, da persone dotate di un’intelligenza superiore alla media. Niente di più falso. Le scoperte sono sempre state il frutto di un lavoro di squadra, mai nessuno ha agito in solitudine per raggiungere degli obiettivi. Ma se non siamo in grado da soli di prendere delle decisioni allora come facciamo ad orientarci nelle scelte? Perché facciamo affidamento sulla conoscenza degli altri e dell’ambiente nel quale viviamo: tecnici, professori, libri, internet, media. Nessuno è in grado di sapere tutto, per vivere abbiamo bisogno delle conoscenze degli altri. E’ questo supporto esterno a farci illudere di sapere. Non solo, spesso ci induce in errore. Quante opinioni vengono sostenute per non contraddire il proprio gruppo sociale di riferimento o di appartenenza che l’ha generate? Molti formano la propria opinione sul sentito dire, esprimono giudizi su persone, fatti, luoghi e pensieri senza avere alcuna cognizione dell’argomento, semplicemente dopo aver letto un articolo, magari velocemente, su Facebook. Con i social network questo fenomeno si sta accrescendo, gli “esperti per sentito dire” sono in aumento, le opinioni frutto del proprio pensiero sono sempre meno.
Il mondo è troppo complesso per poterne prevedere l’evoluzione. I fattori che influenzano i fenomeni sono così tanti e imprevedibili che ogni tentativo da parte dell’uomo appare semplicemente velleitario. Se a questo aggiungiamo che l’uomo post-moderno è sempre più spaventato e ha perso il contatto con la realtà, ci rendiamo conto di come la capacità profetica stia diventando sempre più scarsa. Un uomo che vive del sentito dire, di pregiudizi, di stereotipi, di dogmi che ovviamente non hanno alcuna attinenza con la realtà, non può che commettere grossolani errori di valutazione e mantenere lo status quo invece di cambiarlo.
Riconoscere i limiti della nostra comprensione dovrebbe renderci più umili e più aperti verso gli altri. Se utilizzassimo la comunità della conoscenza per aiutare gli altri a comprendere e a superare i propri limiti mentali riusciremmo a migliorare il modo in cui prendiamo decisioni e forse anche a prevedere qualcosa.
Massimiliano Capalbo
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