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Non chiamatelo lavoro

Dopo il licenziamento di 1400 operai dell’Ilva e l’esplosione di una fabbrica di oli raffinati a Lamezia Terme il termine “lavoro” oggi è riapparso improvvisamente sui giornali accanto alla parola “perduto”. Ma siamo sicuri che questi si possano definire lavori e che non sia meglio perderli che ritrovarli?
La politica non è preoccupata (non lo è mai stata) della perdita del posto di lavoro da parte di migliaia di persone ma dell’instabilità sociale che questo può comportare. Le industrie hanno sempre rappresentato, in Italia e non solo, uno strumento di controllo sociale ed elettorale. La soluzione più rapida al problema occupazionale (che un problema non sarebbe se ciascuno puntasse sul proprio talento e le proprie capacità per realizzarsi nel mondo). La triade politico-imprenditore-sindacalista si è sempre adoperata per continuare a coltivare il proprio orticello, per tenere in piedi molti mostri e per garantire un altro giro di giostra a manager senza scrupoli giocando con la vita degli operai che, un pò per ignoranza un pò per necessità un pò per pigrizia (meglio lo stipendio sicuro a fine mese che l’incertezza e il rischio del lavoro in proprio), non hanno mai saputo o voluto uscire dai recinti che gli sono stati costruiti intorno.
Il politico ha sempre utilizzato per fini elettorali la creazione di imprese e quindi di posti di lavoro, l’imprenditore ha abdicato al suo ruolo ricercando dal politico il finanziamento (annullando il rischio in barba al libero mercato e alla sana concorrenza) per la creazione dell’impresa stessa e il sindacalista ha finito per strumentalizzare i problemi dei lavoratori per costruire la propria carriera politica. Il risultato di ciò è sotto gli occhi di tutti.
Ora che la crisi economica sta decretando la fine dell’industria, così come l’abbiamo fin qui conosciuta, l’impalcatura rischia di crollare. Il modello non regge più, chi fa impresa seriamente e responsabilmente lo sapeva che sarebbe finita così, non sapeva quando esattamente ma lo sapeva.
Per uscire da questo sfacelo c’è solo una strada. Questi lavoratori vanno mantenuti dallo Stato, non c’è altra alternativa, occorre stanziare dei soldi per farlo e questi soldi non possono che venire dalle tasse.
Se questi mostri (le industrie che inquinano) non fossero il frutto di un accordo (leggi inciucio) tra imprese, politica e sindacati ma di una strategia industriale e se questi fossero lì per fare gli interessi dei lavoratori, qualcuno (la politica) chiederebbe il conto (i danni per l’inquinamento prodotto ad esempio) e con questo pagherebbe gli operai licenziati. Ma siccome così non è il costo di queste operazioni sarà scaricato ancora una volta sui contribuenti. Se servisse a risolvere una volta per tutte il problema potrebbe anche essere accettabile, se fosse l’ultima volta, se servisse a chiudere definitivamente la fase dell’industrializzazione forzata che non ha portato nè occupazione, nè sviluppo ma solo inquinamento e povertà. Temo però che non sarà così soprattutto se, come si evince dai giornali, continueremo a considerarlo e a chiamarlo lavoro, per giunta perduto.

Massimiliano Capalbo

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