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Il senso di colpa e il gregge

A giudicare dalle opinioni più comuni, che si trovano soprattutto sui social network, io sarei un cattivo cittadino e dovrei sentirmi in colpa. Non ho votato al Referendum scorso così come alle Politiche di ieri, non ho firmato il registro contro la ‘ndrangheta, non festeggio il 25 aprile e il 1 maggio (anzi sono tra le giornate dell’anno in cui lavoro di più), non commemoro anniversari, non scendo in piazza con cartelli in mano per protestare (l’ultima volta risale ad una decina d’anni fa e l’ho fatto per esprimere solidarietà ad un imprenditore vessato dalla criminalità organizzata). Tra affermazioni patetiche del tipo “pensa a chi ha lottato per garantire che oggi noi potessimo votare” e altisonanti come “faremo la rivoluzione” ho preferito restare a casa. Anche perché è dal 2007 che vado in giro per l’Italia e l’Europa a fare politica e ogni tanto c’è bisogno anche di riposarsi.
Ho visto gente, alla stregua di fuochi di paglia, infiammarsi nelle ultime settimane e imbracciare un vessillo per cercare di convincere gli altri che questa fosse la battaglia decisiva, quella stessa gente che domani ritornerà a sedersi davanti alla televisione a fare lo spettatore o a lamentarsi delle cose che continueranno a non funzionare. Il voto, ormai, ha la stessa efficacia di un like messo su Facebook, esprime al massimo un sentimento, nulla di più. E in effetti è il sentimento quello che esce fuori da quest’ultima consultazione elettorale: paura del Nord di perdere il potere (soprattutto economico) detenuto fin qui ed ennesima richiesta di assistenzialismo proveniente dal Sud. Quando il processo di informatizzazione del voto, avviato dai 5stelle, diventerà diffuso e generalizzato sarà ancora più facile esprimere sentimenti con un click. Chi ha lottato per garantire che oggi potessimo votare si starà divertendo nell’osservare l’incapacità degli italiani di riformare gli strumenti attraverso i quali si ostinano a darsi un governo.
Quando c’è da compiere una scelta poco chiara, come ad esempio quella di andare a votare con una leggere elettorale truffaldina (le cui schede questa volta, ironia della sorte, avevano un tagliando antitruffa) il comportamento più diffuso tra le persone è quello di far sentire in colpa chi non si adegua, per un motivo molto semplice: non essendo sicuro di quello che stai facendo hai bisogno di confermare la tua scelta uniformandoti al gregge e di additare chi non lo fa. Anche perché quando sbagliano in tanti non sbaglia nessuno e tutti sono assolti. E’ lo stesso senso di colpa che quotidianamente spinge le persone a decidere di scegliere un lavoro piuttosto che un altro, una scuola piuttosto che un’altra, una moglie o un marito piuttosto che un altro, un abito piuttosto che un altro, se lo fanno tutti ti senti meno in colpa e più rassicurato. Anche per questo le maggioranze non mi sono mai piaciute.
Io il senso di colpa non ce l’ho. Sarà perché è dal 2007 che vado (a spese mie e della mia attività) a parlare nelle scuole per evitare che i ragazzi entrino a far parte del gregge, che pubblico libri per cercare di far riflettere sui nostri comportamenti quotidiani, che aiuto giovani imprenditori ad emergere portandoli sotto i riflettori o raccontandone l’agire anche quando a loro non sembra particolarmente importante farlo, che creo impresa e pago le tasse anche se non ho nulla in cambio dallo Stato (quando non ostacoli), che mi batto per difendere il territorio bloccando centrali che inquinano, evitando il taglio dei boschi, preservando le aree archeologiche, insomma che agisco quotidianamente facendo la mia parte senza chiedere nulla in cambio, come un vero politico. Non mi sento, quindi, in debito nei confronti della collettività, semmai mi sento in credito e intendo continuare a sentirmi così finché ne avrò voglia e capacità.

Massimiliano Capalbo

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  1. […] reazioni suscitate dall’articolo di ieri mi stimolano un’ulteriore e approfondita riflessione sul tema della partecipazione alla vita […]

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