Sono andato a trovare i ragazzi del Comitato “7 agosto” di San Ferdinando che, nelle scorse settimane, si sono resi protagonisti di una vibrante protesta a causa dell’inquinamento da idrocarburi che ha interessato un canalone prospiciente il lungomare della medesima cittadina e ho visto cose che voi umani non potreste immaginare.

Dopo aver preso parte a quello che potrei definire “il tour degli orrori”, intorno al centro abitato, ho compreso che il canalone è l’ultimo dei problemi di questa comunità che sorge di fianco al porto di Gioia Tauro la cui recinzione ne delimita, come un campo di concentramento, i confini. Quello che siamo costretti a vedere oggi è il risultato di un lavoro di squadra, durato decenni, che ha coinvolto: le istituzioni locali e nazionali, certa imprenditoria deviata del Nord, i media e la criminalità locale, il tutto agevolato dal campanilismo, dall’ignavia e dall’indifferenza di una buona parte dei residenti. Si tratta di uno dei pochi esempi di come la Calabria sappia, quando vuole, “fare rete”. Che cos’è la “criminalità organizzata” se non l’insieme di tutti quei soggetti, pubblici e privati, che si organizzano in qualche modo lecito o non lecito per nuocere alla collettività e all’ambiente?
Le origini progettuali di questo scempio traggono forza dal campanilismo e dalle contrapposizioni che hanno sempre caratterizzato stupidamente le comunità di questa regione, strumentalizzate politicamente per lucrare e asservire secondi fini. Quest’area venne designata, negli anni 70, per la creazione del futuro polo siderurgico di Reggio Calabria (mai realizzato), come “misura compensativa” rispetto alla mancata assegnazione della sede del capoluogo di regione, che fu assegnato a Catanzaro.
Intorno all’abitato di San Ferdinando, a parte una centrale nucleare, è stato realizzato e compiuto tutto ciò che potesse inquinare e uccidere forme di vita umana, animale e vegetale. Dove un tempo, quando non c’era bisogno di compensare nessuno, crescevano rigogliosi aranceti e uliveti e il profumo più intenso era quello di zagara (il fiore d’arancio), oggi sorgono impianti industriali che hanno desertificato un’area di mille ettari e reso irrespirabile l’aria, inquinato il mare (km di costa da far invidia a un qualsiasi atollo della Polinesia) e i terreni di una delle aree più fertili del Sud Italia.
E precisamente:
– un inceneritore che ogni notte gasa l’aria che, chi vive in quest’area, respira;
– un impianto a pirolisi che tratta alluminio e plastiche speciali;
– il più grande impianto di depurazione in Calabria, nato per servire solo i comuni della piana di Gioia Tauro che oggi si occupa di depurazione di acque e rifiuti liquidi speciali e bonifiche di siti contaminati, per tutto il Sud Italia;
– tre aree industriali nelle quali risultano funzionanti forse solo il 15% dei capannoni presenti (gli altri hanno preso i contributi europei della 488 e sono fuggiti);
– due fiumi: il Mesima nel quale confluiscono le acque reflue di ben 14 comuni del comprensorio sprovvisti di depuratore e il Budello le analisi delle cui acque, effettuate dai cittadini che si sono autotassati per eseguirle, riportano la presenza di trielina (300 volte superiore ai limiti consentiti), tensioattivi e idrocarburi e una concentrazione di batteri oltre ogni limite, come raccontato in un recente servizio del TGR Calabria (edizione delle ore 19.00 del 28 agosto);
– il porto di Gioia Tauro, dove transitano ogni anno circa 2500 navi portacontainer, una commessa della ‘ndrangheta allo Stato per realizzare il “centro di arrivo fondamentale per il traffico di droga internazionale“;
– il canalone dei veleni, dove nelle scorse settimane sono confluiti liquami tossici, vicenda che ha acceso i riflettori su quest’area;
– una baraccopoli, in origine collocata 250 metri più a ovest rispetto a dove si trova ora, oggi in territorio di San Ferdinando, realizzata e mantenuta dalle “istituzioni” che in questa zona hanno istituito “il caporalato di Stato”, un’area circondata da rifiuti di ogni genere che ospita centinaia di extracomunitari in condizione di schiavitù (che nel 2010 si resero protagonisti di una rivolta storica), per consentire ai caporali locali di continuare a a sfruttarli per la raccolta delle arance.
La domanda che sorge spontanea al termine di questo tour è: come fanno ad essere ancora vivi gli abitanti di San Ferdinando e come immaginano il proprio futuro? Per quanto tempo ancora potranno convivere con tutto ciò? Perchè i media continuano a raccontare la bugia del porto di Gioia Tauro come volano di sviluppo della regione e i partitici di qualsiasi colore a fare a gara per continuare a garantirgli risorse economiche? Perchè nessun tribunale internazionale si interessa, processa e condanna gli autori di questo avvelenamento di Stato e di questa schiavitù organizzata a 400 anni di distanza dalla sua abolizione?
Questo è quello che succede quando si mette la propria vita nella mani delle cosiddette “istituzioni”. Chi vive in questi territori, oggi, ha di fronte a sè solo due opzioni: 1) fuggire via; 2) restare e dedicare almeno i prossimi 30 anni della propria vita a rimediare ai danni compiuti (sperando di riuscire a vivere così a lungo).
Io propenderei per la seconda opzione perchè, per quanto ardua possa sembrare l’impresa, nulla risulta impossibile se lo si vuole veramente, ma anche perchè non possiamo pensare che questo problema riguardi solo i residenti e che basti non occuparsene per farlo sparire. Il mondo è rotondo e gira e con esso anche l’inquinamento. Tutti mangiamo gli stessi pesci, tutti ci bagniamo nello stesso mare, tutti respiriamo la stessa aria, tutti ci cibiamo degli stessi prodotti della terra, tutti beviamo la stessa acqua. Ci sono voluti 22 anni per compiere questo scempio, ce ne vorrà qualcuno in più innanzitutto per impedire che lo scempio si allarghi e coinvolga altre aree della regione e poi per riportare la situazione alla normalità.
Presto organizzeremo una tappa dell’eretico tour a San Ferdinando, sarà il tour degli orrori solo per stomaci forti, per alzare il velo sull’ipocrisia che avvelena lentamente le nostre vite e per pianificare una exit-strategy. Abbiamo bisogno della collaborazione di tutti i calabresi di buona volontà, occorre costruire un cordone di sicurezza intorno a quest’area, occorre sostituirsi alle istituzioni, farsi istituzione, non delegare più a nessuno la nostra vita. Le uniche istituzioni credibili, gli unici interlocutori con i quali continuare a dialogare dovranno essere le forze dell’ordine e la magistratura. Il momento è favorevole (il porto è in crisi), la consapevolezza c’è (i residenti sono scesi più volte in piazza), non c’è tempo da perdere, non abbiamo più niente da perdere, adesso o mai più.

Massimiliano Capalbo

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  1. […] stato due anni per vedere con i miei occhi e l’ho descritto in questo resoconto definendolo il tour degli orrori. Bisognerebbe organizzare delle gite scolastiche a Gioia Tauro, come si fa ad Auschwitz, per […]

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