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La battaglia tra due modelli di leadership

La guerra tra Putin e Zelensky è innanzitutto una guerra tra due modelli di leadership. I due leader sono perfettamente antitetici e incarnano i due antipodi del concetto di leadership, uno predominante, l’altro in declino. Zelensky è ambiguo, opportunista, teorico, altalenante, indiretto, virtuale. Putin è concreto, lineare, coerente, diretto, crudo, pragmatico, reale. Zelensky è un prodotto della cultura mediatica che governa il mondo, un personaggio che utilizza i social, l’immagine, l’apparenza, la virtualità, il linguaggio simbolico per imporre la sua narrazione del conflitto e manovrarne l’esito a proprio favore (che non coincide necessariamente con quello della sua nazione). Putin è un uomo di esperienza, pragmatico, che ha costruito la propria leadership sul campo, misurandosi con la cruda realtà, che non esita ad usare la forza per far valere le proprie ragioni e raggiungere i propri scopi. Zelensky fa parte di quel modello di leadership che accomuna la maggior parte dei leader occidentali, costruita attraverso i media, fatta di apparenze, di parole, di immagini, di fuffa, senza una visione di lungo termine ma costruita giorno per giorno sulla base degli umori e dei feedback mediatici. Lo definiscono un grande comunicatore (che tradotto nel linguaggio occidentale significa grande affabulatore, perché in Occidente si crede che sapere comunicare significa saper prendere in giro l’altro, Berlusconi ha fatto scuola a molti). Putin è l’ultimo esempio di leader vecchio stampo, in declino, legato alla materialità, ai confini, alle tradizioni, a tutto ciò che è reale e si tocca, che sta combattendo una battaglia ideologica forte, epocale, destinata a cambiare i destini politici e non solo del pianeta e che ha scelto di accollarsi sulle spalle l’enorme peso di questa scelta. Non esiste al momento, nel mondo occidentale, nessun leader con il suo carisma e la sua determinazione, in grado di fare altrettanto. Putin è l’ultimo erede di questo modo di intendere la leadership. Per trovarne un altro occorre rivolgersi ad Oriente, alla Cina. E non solo per una questione di forza militare ma, innanzitutto, per la forza ideologica che c’è dietro le sue scelte, giuste o sbagliate, legittime o illegittime che siano.
Ma, al contrario di ciò che sembra, è Zelensky il vero giocatore d’azzardo, quello che sulla carta non ha alcuna chance ma che, grazie alla sua capacità manipolatoria, nell’era delle apparenze, della virtualità, dell’apparire e non dell’essere, rischia di vincere la partita. Sul suo campo Putin è spacciato, i media sono dalla sua parte, sul campo di Putin è spacciato Zelensky senza l’appoggio dei media la sua narrazione crollerebbe, questa battaglia infatti si vince portando l’avversario nel proprio campo e questo lo sanno entrambi i contendenti. Nel mondo dell’apparenza Putin è dovuto passare dalle parole ai fatti per esistere, per essere preso in considerazione dal mondo occidentale, ha dovuto scegliere l’arma più dolorosa e reale, quella della guerra. Quindici anni di discorsi, di avvisi, di pre-allarmi non sono serviti a nulla, il mondo delle apparenze non lo ha creduto reale finchè non ha sentito il boato delle bombe.
L’esito di questa guerra non avrà ripercussioni solo sul piano geopolitico ma anche sui modelli di leadership del futuro. La battaglia è tra il vecchio modello (Putin) e il nuovo (Zelensky), tra la concretezza e l’apparenza, tra il reale che può piacere o non piacere e l’illusorio che nell’immediato appare gradevole e che un bel giorno potrebbe rivelarsi in tutta la sua effimera tragicità.

Massimiliano Capalbo

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