Nello stesso giorno in cui il governo garantisce il futuro dell’Ilva (invece di quello dei cittadini) avallando la volontà dei lavoratori della fabbrica (con l’appoggio dei sindacati, tra i principali contributori alla devastazione del territorio italiano) di continuare a morire di tumore per i prossimi dieci anni, mi capita di leggere un articolo che annuncia un convegno organizzato dal CAI, a Longarone, per il prossimo 24 novembre dal titolo “Frequentazione responsabile della montagna nell’era del social network” secondo il quale l’impatto negativo sull’ambiente naturale, oggi, sarebbe determinato dall’invasione incontrollata dei turisti. Nello stesso giorno in cui il governo decide di prorogare l’inquinamento a norma di legge a Taranto, c’è chi è allarmato per la trasformazione della montagna in luna park. Che strano paese l’Italia, caratterizzato da contrasti fortissimi che sembra aver perso le proporzioni.
Che la gente, oggi, sia inadeguata a vivere è un dato di fatto che non riguarda solo la montagna, purtroppo. La Protezione Civile, ad esempio, sta diventando la badante dei cittadini, incapaci di sopravvivere agli imprevisti che accadono in ambienti artificiali (le città), figuriamoci in quelli naturali. Ma questa inadeguatezza non si risolve vietando gli accessi o piazzando le “sentinelle del territorio” ma, semmai, creando e incrementando le occasioni perché questa domanda di natura venga soddisfatta adeguatamente con la corretta informazione, i servizi efficienti, le adeguate esperienze e le competenti guide. Perché quando le persone comprendono cambiano atteggiamento. E’ l’ignoranza, invece, ad alimentare comportamenti inadeguati. Si tratta, quindi, di un problema di comunicazione e di formazione.
Se le persone oggi si sentono inadeguate è perché gli ambiti della società delegati a fornire la conoscenza (la scuola e la famiglia) non formano più persone ma pezzi di ricambio utili a far funzionare il meccanismo artificiale dello Stato. Perché ci si concentra sul sapere (leggi tecnologia) invece che sull’essere (leggi umano).
La scoperta delle montagne e la nascita dell’alpinismo si devono, nella prima metà del ‘700, all’aristocrazia inglese. Scalare le montagne in quell’epoca era un’esperienza elitaria, riservata alle classi più agiate, per i costi e i soggiorni prolungati che richiedevano alla stregua dei Grand Tour. Andare sulle montagne in Val D’Aosta, nell’800, era sinonimo di “faire l’anglais”. E questo elitarismo si è mantenuto nel tempo fino ai giorni nostri, con modalità diverse, nei vari club dedicati alla montagna. Oggi si manifesta con certi atteggiamenti di disprezzo, spesso snobistici, rivolti ai turisti della domenica. La montagna viene vista, da una certa élite, come luogo dove rifugiarsi per sfuggire al confronto con una società che, sempre più malata, avrebbe bisogno di guarire, approcciandosi più spesso alla natura piuttosto che di essere abbandonata a se stessa o di essere etichettata sbrigativamente come accade frequentemente. Gli intellettuali, le persone sagge, dovrebbero evitare di cadere in queste affermazioni ricche di pregiudizi. Ma tant’è. Dopo la tragedia di Civita avverto una certa voglia di “regolamentazione” nell’aria che, quasi sempre, si traduce con la creazione di zone riservate “agli addetti ai lavori”.
Quali sono i parametri che ci consentono di definire “un’ordinata frequentazione” della montagna? E dopo aver “ordinato” la montagna passeremo al mare? Alla città? Alle abitudini alimentari, culturali, sociali? Ci forniranno le prescrizioni per vivere nel modo giusto in qualunque ambiente o condizione?
Chi ha la conoscenza dovrebbe semplicemente metterla a disposizione degli altri, come hanno fatto ieri sera a Catanzaro Lido, botanici e ornitologi che hanno accompagnato un centinaio di persone in un’escursione naturalistica alla scoperta della zona dunale di località Giovino. La maggior parte dei partecipanti, me compreso, avranno attraversato quei luoghi centinaia se non migliaia di volte nella loro vita. Ma nessuno si era mai soffermato a guardare con occhi nuovi e competenti le numerose specie di piante (alcune endemiche, quindi uniche nel loro genere) e di uccelli presenti. Perché noi non vediamo con i nostri occhi, vediamo con le nostre idee. E se qualcuno non ci aiuta ad aprirli, questi occhi, possiamo continuare tranquillamente a vivere nella cecità. Se così non fosse la Calabria sarebbe la prima destinazione turistica o naturalistica del Mediterraneo e migliaia di ciechi non continuerebbero ad emigrare perché vedono con le proprie idee, oasi che non esistono, invece che con i propri occhi la realtà nella quale hanno avuto la fortuna di nascere. Una volta trasmessa questa conoscenza occorre lasciare alle persone la libertà di decidere come utilizzarla, sempre nel rispetto di tutti. Perché è dall’interpretazione della realtà che nascono nuove cose, perché la realtà non è oggettiva, altrimenti non ci sarebbe stato bisogno di proporre la tutela di un’area, come quella di Giovino, che è sempre stata sotto gli occhi dei residenti. Chi ha la conoscenza dovrebbe restituire la vista ai ciechi, dovrebbe ridarci gli occhi per vedere invece di limitarsi a giudicare i comportamenti altrui.

Massimiliano Capalbo

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