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Passaporto verde e libertà: una relazione da ripensare

Già in occasione del d.l. 22.4.2021 n. 52, con cui si introduceva un certificato verde per gli spostamenti tra regioni, si erano sollevati dubbi circa gli effetti sul sistema delle libertà individuali e si era paventato il pericolo che quella misura potesse prepararne altre, di più intenso rilievo. Oggi, con il d.l. 105 del 23.7.2021, la previsione si è prontamente avverata, con il coinvolgimento di molti atti di vita quotidiana: prendere un treno, andare al ristorante, frequentare un museo, entrare in palestra, lavorare a scuola, partecipare ad un concorso, andare a cinema, lavorare. Le obiezioni, al tempo, non erano frutto di un vuoto gioco oppositivo, ma la conseguenza di una lettura orientata delle fonti interne ed internazionali.
Il Regolamento UE n. 953/2021 del 14 giugno, istitutivo del c.d. green pass europeo, al punto 9 dei suoi “considerando” ha ammonito che le misure dei singoli Stati non risultino idonee a “causare perturbazioni significative dell’esercizio del diritto di libera circolazione e ostacolare il corretto funzionamento del mercato interno, compreso il settore del turismo”. Ha ancora osservato (‘considerando’ n. 36) che “E’ necessario evitare la discriminazione diretta o indiretta di persone che non sono vaccinate, per esempio per motivi medici, perché non rientrano nel gruppo di destinatari per cui il vaccino anti covid-19 è attualmente somministrato o consentito, come i bambini, o perché non hanno ancora avuto l’opportunità di essere vaccinate ma anche verso chi per scelta non è vaccinato”. Ne ha concluso che “il possesso dei certificati […] non costituisce una condizione preliminare per l’esercizio del diritto di libera circolazione” (art. 3 comma 6) e che, comunque, gli stati membri sono tenuti (considerando n. 48) a precisare “le categorie di soggetti che possono verificare il certificato nonché le pertinenti garanzie per prevenire discriminazioni e abusi, tenendo conto dei rischi per i diritti e le libertà degli interessati”.
In precedenza, la Risoluzione del Consiglio d’Europa n. 2361 del 27.1.2021 (“Vaccini Covid-19: questioni etiche, legali e pratiche”), aveva asserito due principi cardine: 1. L’esclusione di un obbligo vaccinale generalizzato, in assenza di una apposita legge dello Stato;  2. Il divieto di ogni sorta di discriminazione verso chi, per le motivazioni più disparate, ritenga di non doversi sottoporre a vaccinazione. Vero è che le Risoluzioni dell’Assemblea del Consiglio d’Europa non sono fonti immediate di diritto, è parimenti vero che esse assolvono ad una non secondaria funzione di ‘moral suasion’, costituendo premessa per una coerente regolazione in ambito europeo. In questo senso, la Risoluzione fissa un perimetro concettuale quando ammonisce, a proposito dei certificati verdi, che ”Utilizzarli come passaporti sarebbe contrario alla scienza in assenza di dati sulla loro  reale efficacia nel ridurre la contagiosità, la durata dell’immunità acquisita” e che “nessuno sia discriminato per non essere stato vaccinato, a causa di possibili rischi per la salute o per non voler essere vaccinato”.
Ed infine, a proposito della protezione dei dati personali, il Garante, già con nota dell’1.3.2021, aveva ammonito che i dati relativi allo stato vaccinale sono dati particolarmente delicati e un loro trattamento non corretto può determinare conseguenze gravissime per la vita e i diritti fondamentali delle persone: conseguenze che, nel caso di specie, possono tradursi in discriminazioni, violazioni e compressioni illegittime di libertà costituzionali. Ebbene, su tale questione, ampiamente ripresa dal Regolamento UE, la risposta del Governo è stata di demandare anche a soggetti privati – camerieri, barman, addetti agli accessi il controllo – il controllo del green pass e dei documenti comparativi (v. anche art. 13 commi 2 e 4 DPCM 17.6.2021), in assenza di specifiche misure atte a garantire la riservatezza dei dati sanitari.
Sommando, le norme contenute nel d.l. 105/2021, con il carico di preclusioni e sanzioni che vi sono impresse, sembrano, per un verso, distanti dai perimetri fissati dalla comunità internazionale, dall’altra, puntando sull’efficacia del certificato digitale, suonano come una resa rispetto a tutte le misure precauzionali (distanziamento, igienizzazione delle mani, mascherina, controllo della temperatura, contingentamento degli accessi, etc.) che, per circa un anno e mezzo, hanno accompagnato la nostra vita. Tutto questo, in assenza di evidenze scientifiche circa la presunta immunità trasmissiva delle persone vaccinate.
Vero è che, in una fase di crisi sanitaria, i Governi hanno il potere/dovere di adottare misure precauzionali e protettive, anche foriere di limitazioni ai diritti di circolazione (art. 16 Cost.). E’ parimenti vero che i diritti primari, fuori dai limiti di cui sopra, non sono contendibili e che qualunque misura restrittiva debba avere il segno della proporzionalità e della compensazione. In questo senso, è inevitabile domandare: Che ne sarà di coloro che non potranno o vorranno sottoporsi al vaccino e che, di più, non abbiano avuto in sorte di contagiarsi ed esibire uno stato di guarigione? Dovranno sottoporsi ogni due giorni a tampone? O dovranno soggiacere ad un’eterna esclusione, che avrà fine solo con la fine del virus? Il tema ha severe implicazioni giuridiche e sociali. Esse riguardano così il rapporto tra la normativa interna e quella comunitaria, come il tema cruciale della libertà di pensiero e del diritto alla differenza.
Quanto al primo punto, vale considerare che, a mente dell’art. 117 della Costituzione, “La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”. Non siamo soli nel pianeta del diritto, siamo parte di un organismo più ampio che impone, in ipotesi di contrasto, la disapplicazione della norma interna. Il punto è stato ben tracciato dalla giurisprudenza europea, secondo la quale “il primato del diritto dell’Unione impone che i giudici nazionali incaricati di applicare, nell’ambito delle loro competenze, le norme del diritto dell’Unione abbiano l’obbligo di garantire la piena efficacia di tali norme disapplicando all’occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi contraria disposizione nazionale, senza chiedere né attendere la previa soppressione di tale disposizione nazionale per via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale” (Corte di Giustizia, Grande Sezione, 4.12.2018). Nulla esclude, dunque, che i Giudici nazionali potranno riposizionare la scala dei valori, disapplicando le parti del d.l. 105/2021 nella misura in cui contrarino il modello comunitario.
Quanto al secondo punto, incidendo il passaporto verde sull’esercizio di diritti fondamentali di libertà (diritto al lavoro, diritto di circolazione, diritti concorsuali, diritti di accesso ai luoghi dello svago, della cultura e del turismo, etc…), si impone una severa riflessione circa la permanenza nel nostro Paese del diritto alla differenza. Il covid-19 ci ha colti fragili ed impreparati, più di quanto potessimo solo lontanamente immaginare. Così, in nome della paura, si sono registrati cedimenti sul fronte dei diritti che dovrebbero destare più di un’attenzione. E’ lecito, in queste condizioni, coltivare un pensiero diverso? Certamente si. La sostanza del nostro essere cittadini è proprio quella di potere partecipare al dibattito, nutrendolo di differenze, pluralità, verità. Ciò che, al contrario, non giova ad una comunità democratica è il pensiero unico, quello che risponde a logiche di pronta evidenza ma evita di farsi carico delle implicazioni di durata. Nel suo saggio ‘Resistance to civil government’ del 1859, Henry David Thoreau asserisce che “Non vi sarà mai uno Stato veramente libero e illuminato, fino a quando lo Stato non giungerà a riconoscere l’individuo come una forza più alta e indipendente, dalla quale deriva tutto il suo potere e la sua autorità, e lo tratterà di conseguenza”. Ed aggiunge: “Se ho ingiustamente strappato la tavola a cui si aggrappava a un uomo che sta per annegare, devo restituirgliela, a costo di annegare io stesso”, concludendo che “Sotto un governo che imprigiona la gente ingiustamente il vero posto per un uomo giusto è la prigione”.
Fuor di metafora, pensare liberamente è, in democrazia, un diritto ed anche un dovere. E questo vale anche nel caso del d.l. 105/2021, in cui sembra annidarsi uno scopo diverso rispetto a quello apparente, ovvero l’introduzione, sotto mentite spoglie, di un obbligo vaccinale non dichiarato, con la prefigurazione di conseguenze gravi e tipizzate, che vanno dall’esclusione dal lavoro (con conseguente sospensione dallo stesso), al divieto di accesso ai concorsi pubblici, alla preclusione verso l’esercizio di diritti fondamentali, quali la mobilità, la cultura, il ristoro, lo svago, la cultura fisica. Un prezzo troppo alto, a mio parere, nel quale si annidano le premesse per ulteriori restrizioni che, se non controllate o correttamente testate, finiranno per considerare normale l’universo delle cose anormali, ovvero il restringimento, se non addirittura il respingimento, delle nostre primarie libertà.

Avv. Domenico Sorace

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