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Tante volte mi sono sentito dire che sono un’eroe, un mito o un’idolo per quello che ho fatto nella mia vita. In molti mi hanno scritto per dirmi che vorrebbero essere come me o che non sono al mio livello. Eppure per tanti anni, in cui questo accadeva, pure io invidiavo gli altri, mi sentivo inferiore e avrei voluto essere come qualcun altro. Incontravo uomini o donne che sapevano fare un sacco di cose manualmente. Io non sapevo costruire nulla, tantomeno suonare uno strumento e mi sentivo un imbranato.
Non ho ricevuto un’educazione che mi ha permesso di sviluppare dei talenti, anzi a scuola mi hanno trasmesso grandi insicurezze. Ancora oggi, a volte, può capitare di sentirmi timido o un po’ frenato e quando me ne accorgo, a maggior ragione, faccio quella cosa che mi fa sentire a disagio.
Siamo nati nella società della competizione, dove costantemente viene esaltato il più bravo, il più forte o il più bello. Quando osserviamo gli altri molto spesso vediamo il bicchiere mezzo pieno mentre quando osserviamo noi stessi lo vediamo mezzo vuoto. Tendiamo a idealizzare gli altri e a sminuire noi stessi ma non sappiamo nulla della vulnerabilità o delle insicurezze altrui. Quelle sono spesso nascoste dalle maschere sociali.
Da diversi anni cerco di smettere di paragonarmi e di evitare di giudicarmi. Invece di invidiare preferisco gioire per i talenti altrui e prendere ispirazione. Questo mi permette di alimentare la mia sete di conoscenza.
Non mi sento superiore o inferiore a nessuno, credo che tutto quello che fa un altro essere umano posso farlo anche io con volontà e costanza. Vedo tanta bellezza in ognuno perché a nostro modo siamo tutti esseri unici. Soprattutto cerco di mostrare di più la mia vulnerabilità perché è proprio questa che mi permette di connettermi con gli altri e di valorizzare la grande umanità che vive dentro di noi.

Carlo Taglia

Lo scorso 8 febbraio la Camera ha definitivamente approvato il disegno di legge di riforma degli articoli 9 e 41 della Costituzione in materia ambientale. La legge costituzionale attende solo la promulgazione da parte del Capo dello Stato. Non sarà necessario, infatti, in questo caso, il referendum confermativo, perché la legge è stata approvata, così come prescrive l’art. 138 ultimo comma della Costituzione, con doppia deliberazione e con la maggioranza dei due terzi dei componenti delle camere.
Segnalo, subito, l’assoluta assenza di dibattito pubblico e di informazione durante il concepimento e la discussione della riforma, nonostante si tratti, in assoluto, della prima revisione di uno dei “Principi fondamentali” della carta (l’art. 9 appunto) nella storia della Repubblica. Dibattito e informazione che vi sono sempre stati, invece, in casi di precedenti revisioni costituzionali (come la riforma, poi abortita, delle norme sul bicameralismo perfetto di renziana memoria), oppure in occasione della discussione di normali disegni di legge (come il DDL Zan, anch’esso prematuramente scomparso). La mancata informazione può essere dovuta a due fattori: o la distrazione dei media nazionali (ma tenderei ad escluderlo) o la volontà politica di calmierare l’influenza dell’opinione pubblica sul Parlamento: in altri termini, per evitare polemiche che avrebbero potuto condurre al nulla di fatto, come accadde nei due esempi sopra richiamati.
L’altra cosa singolare è che, per la prima volta, una legge così importante viene approvata con una incredibile tempestività e praticamente all’unanimità. Per altro su un tema che è sempre stato altamente divisivo: l’ambiente. Non ricordo un solo caso in cui un disegno di legge con risvolti ambientali non abbia avuto la netta opposizione di qualche partito politico o di qualche lobby. Inoltre, tutto è stato fatto appena prima che inizi la grande operazione di spesa del PNRR, destinata in gran parte alla costruzione di impianti di produzione energetica e di infrastrutture. E poiché il denaro dell’Europa dovrà essere speso rapidamente, sarebbe davvero strano che il Parlamento abbia inteso, proprio ora, complicare la vita al governo e ai privati, introducendo una tutela ambientale più stringente.
Le reazioni sono caute da parte dei giuristi, che conoscono bene l’argomento, ed entusiastiche, invece, da parte di alcune associazioni ambientaliste che vorrebbero intestarsi la riforma.
Ma vediamo di che si tratta. L’art. 9 della Costituzione venne posto dai costituenti a promozione della cultura e della ricerca scientifica (primo comma) ed a tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della Nazione (secondo comma). Furono Concetto Marchesi ed Aldo Moro – il primo, letterato comunista, il secondo, giurista di ispirazione cattolica – a difendere strenuamente, in sede costituente, l’originaria formulazione di questa importante norma. Racconta la lunga e complessa vicenda dei prodromi della formulazione dell’art. 9 e della sua travagliata approvazione Salvatore Settis in un suo libro fondamentale: “Paesaggio, Costituzione, Cemento”, Einaudi 2010. Proprio grazie all’art. 9 si è potuta costruire, in tutti questi anni, la tutela giuridica congiunta dei beni culturali ed ambientali, sulla base di ripetuti interventi interpretativi da parte della Corte Costituzionale e dell’emanazione del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio (Decreto Legislativo n. 42 del 2004).
Per fortuna, i due commi di cui era composta la norma non sono stati in alcun modo toccati dalla riforma. È stato aggiunto, invece, un terzo comma che così recita: “[La Repubblica] tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni. La legge dello Stato disciplina i modi e le forme di tutela degli animali”. In sostanza, accogliendo proprio le interpretazioni venute dalla Corte Costituzionale e uniformandosi alla legislazione comunitaria, il legislatore ha “chiarito” che oggetto di tutela non è solo il paesaggio ma anche l’ambiente (aria, terra, acqua etc.), la biodiversità (tutte le forme di vita) e gli ecosistemi (ambiti di territorio in relazioni dinamiche fra le varie forme di vita che li popolano e fra esse e l’ambiente).
Nel caso dell’art. 9 l’intervento del legislatore, benché rappresenti quasi un atto dovuto, si può guardare senza sospetto all’integrazione di cui alla riforma. L’ambiente (che già la Corte Costituzionale aveva ricompreso nel termine “paesaggio”), la biodiversità e gli ecosistemi divengono soggetti di tutela costituzionale e non semplici “oggetti”. Ma, ripeto, molto si era già fatto, anche, ad esempio, nel 2015, con la riforma dei reati ambientali.
L’articolo 41 si trova, invece, nel titolo III della Carta intitolato “Rapporti economici” ed è noto per il testo del primo comma, di stampo tipicamente liberale: “L’iniziativa economica privata è libera”. I successivi due commi furono posti a mitigazione del principio generale: nel secondo, la riforma ha introdotto “la salute e l’ambiente” fra i limiti che già la Carta aveva imposto a tale liberà, la quale “non può svolgersi in contrasto con o in modo da recar danno a …”, e “i fini ambientali” – oltre che quelli sociali (che preesistevano nel testo) – verso i quali l’attività economica deve essere indirizzata e coordinata. Benché le aggiunte apportate al testo originario appaiano come conseguenziali al nuovo valore costituzionale riconosciuto all’ambiente con il già citato art. 9, è proprio sulla riforma dell’art. 41 che, a mio parere, occorre porsi qualche domanda. Ad esempio: non sarà che con le parole “ambiente” e “salute” si sia voluto far dire alla nostra Carta che, ad esempio, l’energia nucleare – recentemente definita dalla UE fonte energetica necessaria per ridurre le emissioni in atmosfera – non finisca con l‘esser fatta passare – nel caso di costruzioni di nuove centrali – addirittura come uno strumento per tutelare la “salute” e l’ “ambiente” e così ottenere corsie preferenziali per l’autorizzazione alla realizzazione di nuovi impianti? E così per i parchi eolici (o le centrali idroelettriche, o quelle a biogas o quelle a biomasse etc.), che, proprio perché producono energia da fonti rinnovabili, possono essere più facilmente presentati come tutele per l’ “ambiente” e la “salute” e così essere agevolati nella loro marcia trionfale verso l’assalto ad ogni crinale delle montagne italiane rimasto ancora integro.
Per questi motivi non me la sento di unirmi al coro degli ottimisti che inneggiano alla grande vittoria ambientalista. Proprio da ambientalista (non integralista, ma nemmeno ingenuo) e da operatore del diritto mi preoccupo dinanzi a questa improvvisa folgorazione sulla via di Damasco dei nostri politici. Ben sapendo che gli attuali rappresentanti del popolo non sono proprio tutti dei San Paolo. E perché mi pare di vederli, multinazionali e speculatori vari, che già si fregano le mani in attesa della pioggia di miliardi (quasi tutta a loro vantaggio) del famoso – e fumoso – PNRR.

Francesco Bevilacqua

Ho guardato il Festival di Sanremo, non tutte le sere e nemmeno fino in fondo, ma il necessario per poterne parlare con cognizione di causa. Perché è un fenomeno di costume che dice molto di più sul nostro paese di tante analisi socio-psico-pseudo-politiche che leggiamo o ascoltiamo sui media. Il problema non sta nel guardare o non guardare un programma ma nel possedere la capacità critica di interpretarne il vero messaggio di fondo, quello subliminale, che arriva al di là delle apparenze e degli effetti speciali che vengono usati per camuffarlo e farlo apparire più accettabile.
La dissonanza cognitiva che caratterizza i ragionamenti di una fetta consistente delle menti di questo paese, in questo particolare momento storico, non poteva risparmiare il festival, ovviamente. In queste serate abbiamo assistito, infatti, alla rappresentazione plastica del paradosso della libertà in cui viviamo. La maggior parte delle persone è convinta che il messaggio trasmesso dal festival quest’anno sia stato quello della libertà: di essere se stessi, di esprimere la propria identità, di abbattere muri e steccati. Un messaggio comunicato attraverso i testi delle canzoni, gli abiti, gli ammiccamenti, i monologhi, gli ospiti. In realtà questo apparente messaggio di libertà era in forte contrasto con la liturgia, la gestione e la conduzione del festival e anche con la realtà che esiste fuori da quel teatro, che restano sempre gli stessi. La libertà è circoscritta all’interno del recinto costruito dal conduttore e dalla dirigenza del festival, un recinto non solo fisico ma anche culturale all’interno del quale in tanti si illudono di essere liberi di esprimersi.
Il festival è la metafora del nostro paese che fa credere alle persone di essere libere solo all’interno dei recinti che le istituzioni e le multinazionali hanno costruito e costruiscono quotidianamente attorno a noi. La libertà è una gentile concessione del potere negli spazi, nei modi e nei tempi scelti da chi lo esercita. Il festival è la rappresentazione plastica del potere che, come nel Medioevo, si mostra e viene ostentato ad ogni occasione. I dirigenti sono in prima fila per controllare ed essere ossequiati, il conduttore che ha ricevuto il potere dal dirigente lo esercita sui suoi giullari di corte (artisti e ospiti) che sono stati scelti da lui nella sua cerchia di amicizie (e che non perdono occasione per ossequiarlo e ringraziarlo) per intrattenere le masse ma anche per accrescere il lustro della corte e raggiungere i risultati economici che l’intero circo si prefigge. Il conduttore-sovrano è accompagnato dalla moglie (la regina) e dal figlio (probabile futuro erede al trono) che non solo vengono identificati come tali ma sono parte attiva dello spettacolo. E’ il trionfo del familismo amorale in prima serata, l’arretratezza culturale italiana che si cela nel backstage viene venduta come progressismo, come emancipazione collettiva sul palco. Un capolavoro di manipolazione della realtà da far invidia ai migliori esperti di marketing che, in questi giorni, sono riusciti a trasformare lo sponsor principale della manifestazione (noto inquinatore mondiale) in un’azienda green.
Il Festival lascia trasparire il vecchio e intramontabile schema del potere in Italia, verticistico, ereditario, arretrato, stantio, rafforzandone la legittimità e la plausibilità. Mentre tutti discutono della superficie (l’abito, la canzone, il monologo) il messaggio subliminale fa il suo lavoro rafforzando lo status quo, creando una separazione tra chi è riuscito ad entrare nelle grazie dei sovrani e chi no, creando in chi aspira a far parte della corte il desiderio, illudendo i più che quella può essere una ragione per sacrificare una parte della propria esistenza. Salvo poi scoprire, una volta raggiunto il successo, di essere solo una pedina nelle mani di una casa discografica, l’ingranaggio di un’industria che vive di apparenze e che consuma sogni e ambizioni sull’altare dell’intrattenimento.

Massimiliano Capalbo