Aspettavo la notizia ed è arrivata. Perché quando intuisci la piega che sta per prendere una data situazione, è solo una questione di tempo. L’aspettavo per poter rispondere ad un amico che, nei giorni scorsi, con un post sciorinava i numeri relativi ai ricoveri in terapia intensiva presso un ospedale del Sud Italia a causa del Covid. Al mio invito a pubblicare anche i numeri relativi ai ricoveri per altre patologie, per avere un termine di raffronto, mi invitava a riflettere su “quanto impattante fosse la scelta di non vaccinarsi sul sistema sanitario. Sono in tanti a ragionare così negli ultimi due anni, aver fatto leva sulla paura ha indotto molte persone a considerare questo come un ragionamento corretto. Chi si ammala è ormai considerato colpevole di non aver saputo prevenire la malattia.
E’ notizia di ieri che il vaccino all’mRna tra 5 anni verrà utilizzato anche per “curare” una serie di altre malattie tra cui il cancro. Sono gli stessi sviluppatori del vaccino anti Covid ad affermarlo. Non è difficile immaginare che, se la nuova religione che crede nel potere dei vaccini di prevenire qualsiasi malattia dovesse, come sta già accadendo, diffondersi anche alle altre patologie, chi si ammala e dovrà ricorrere ad un ricovero in ospedale verrà sempre più visto come un problema e un costo e non come un paziente bisognoso di cure. E’ tutto qui il sottile, quanto perverso, mutamento di prospettiva in corso: quanto sarà considerato impattate sul sistema sanitario un malato? Quanto potrà essere più semplice e “meno costoso” per un partitico obbligare la popolazione a fare un vaccino per ogni malattia (scaricando ovviamente su chi accetta di farlo le conseguenze di quella scelta) invece di investire nel creare un sistema sanitario in grado di prendersi cura dei pazienti? Vi immaginate in regioni come la Calabria che pacchia che sarebbe? D’altronde è già avvenuto per il Covid. E’ scioccante, infatti, come l’assoluto immobilismo in tema di investimenti nella sanità da parte delle istituzioni preposte, in questi anni post-pandemia, non abbia provocato la stessa indignazione che invece ha provocato la caccia all’untore. I tempi sono già maturi per il cambio di paradigma, l’approccio nei confronti del paziente è già da lungo tempo un approccio meccanicistico, l’emergenza Covid ha preparato il terreno per un ulteriore salto di qualità nella stessa direzione.
Quanto sarà più facile e rapido fare business sullo sviluppo delle bio-tecnologie invece che su un approccio olistico nei confronti dell’organismo e alla malattia? La nostra è una società sempre più alla ricerca del minimo sforzo e del massimo rendimento, non è difficile prevedere che sarà una strada in discesa. Siamo di fronte ad un mutamento epocale nel concetto di malattia e di conseguenza di salute. Il malato sarà (ma lo è già ora) sempre più considerato un nemico della salute pubblica, un costo, un problema per la società, un pericolo pubblico da punire ed emarginare.
Ovviamente questi vaccini sono acqua santa, nonostante siano prodotti di laboratorio (creati dall’uomo e quindi fallibili per definizione) e non si abbia uno storico sui loro effetti a lungo termine, sono positivi per definizione, fino a prova contraria che, con il sistema dell’informazione che ci ritroviamo, sarà veramente difficile nell’eventualità far emergere.

Massimiliano Capalbo

Qualche giorno fa ho commentato sul mio profilo FB la notizia dell’attivazione, presso l’Università della Calabria, del corso di laurea in Medicina e Tecnologie, sostenendo che fare il medico significherà sempre più saper utilizzare un software. Ho utilizzato un’iperbole per focalizzare l’attenzione su un tema, a mio avviso, troppo sottovalutato. A giudicare dai commenti che hanno fatto seguito al mio post sarei un luddista dell’Antropocene. Ma, ovviamente, quello che mi colpisce non è l’utilizzo delle tecnologie nella medicina (ormai la tecnologia è onnipresente in ogni settore) che ritengo utile come qualsiasi altro strumento, ma l’atteggiamento acritico e neo-positivista nei suoi confronti che caratterizza le scelte delle società contemporanee. Oggi tutto ciò che include una qualche forma di tecnologia è considerato positivo per definizione. La convinzione più diffusa, però già confutata da tempo dalla cronaca quotidiana, è che la tecnologia non solo migliorerà la nostra vita ma risolverà tutti i problemi che a sua volta crea. Questo ragionamento è pericoloso in generale ma ancora di più in campo medico, a meno che non si consideri (come già avviene) il corpo umano come una macchina composta da organi che possono essere sostituiti quando si danneggiano. Una concezione cartesiana e newtoniana dell’organismo messa in discussione da tempo dalle più recenti scoperte scientifiche ma che continua a mietere tante vittime. Se a questo aggiungiamo l’atteggiamento che sta diventando sempre più diffuso da parte degli addetti ai lavori, di non prendere in considerazione nulla che non arrivi strettamente dal proprio ambito professionale, le possibilità di non capire più nulla e ridurre la capacità di giungere a nuove conoscenze aumentano esponenzialmente.
Mente e corpo sono un tutt’uno e la tecnologia, per quanto sofisticata possa essere, non sarà mai in grado di cogliere questo aspetto che caratterizza e distingue gli esseri umani dalle macchine. L’uso (anzi l’abuso) della tecnologia, per come declinato fin qui, comporta il rischio di perdere per strada conoscenze importanti derivanti dall’esperienza e dal contatto diretto con il paziente. E’ già avvenuto in passato, quando le tecnologie erano meno invasive di oggi, figuriamoci in futuro.
Oliver Sacks, neurologo e psichiatra statunitense, nel suo bel libro “Il fiume della coscienza” ci fa riflettere sul fatto che abbiamo sempre pensato che la storia sia un progresso continuo quando in realtà è ben lungi dall’esserlo. Uno dei fenomeni molto diffusi in ambito scientifico, a suo parere, è quello di dimenticare o ignorare conoscenze già acquisite e a sostegno di questa affermazione riporta alcune esperienze personali. Quando era un giovane neurologo, racconta Sacks, spesso i pazienti gli riferivano di fenomeni non compresi nel quadro clinico, non necessari per formulare una diagnosi. Un’emicrania classica, ad esempio, poteva essere preceduta da forme luminose e scintillanti o a zig zag che attraversavano il campo visivo dei pazienti. Effettuando delle ricerche nella letteratura scientifica dell’epoca si accorse dell’assoluta assenza di descrizione di tali fenomeni. Sconcertato, decise di consultare i resoconti ottocenteschi, le cui descrizioni tendevano ad essere, rispetto a quelle moderne, molto più complete, più vive e più ricche, ritrovando la descrizione dei fenomeni che stava studiando. Sacks descrive le opere ottocentesche come “di ampio respiro, ricche di digressioni, chiaramente figlie di un’epoca molto più rilassata e meno rigidamente vincolata della nostra.
La cosa scioccante è che, nel secolo che separava le osservazioni dell’autore dell’opera dalle sue, Sacks non era riuscito a trovare alcuna descrizione adeguata di quei fenomeni luminosi eppure una persona su venti li sperimentava come sintomi. Perché questi fenomeni sfuggirono così a lungo all’attenzione dei medici? Si domanda Sacks. Perché chi le fece non era un medico, ma semplicemente un osservatore indipendente animato da una grande curiosità e quindi considerato non degno di attenzione da parte degli addetti ai lavori. Ma, soprattutto, le sue osservazioni erano premature, il mondo scientifico non era ancora pronto ad accoglierle.
Sono centinaia gli esempi che si potrebbero riportare in tal senso nella storia della ricerca scientifica. La frammentazione del corpo segue di pari passo quella dei saperi. “A un certo punto – scrive Sacks – i frammenti devono essere raccolti e presentati nuovamente come un tutto coerente. Questo richiede una comprensione dei fattori determinanti a tutti i livelli… insieme alle loro continue e intricate interazioni.”
All’abuso della tecnologia e alla dimenticanza delle conoscenze si aggiunge un terzo fattore: l’ego degli umani. Figure autorevoli e di potere, all’interno degli ambiti professionali, con i propri pregiudizi concettuali, spesso trancianti, possono ritardare, ostacolare o letteralmente far scomparire le tracce di percorsi già battuti e i risultati di esperienze già acquisite. Come scrisse Wolfgang Kohler “in campo scientifico le semplificazioni e le sistematizzazioni possono irrigidire la scienza impedendone lo sviluppo vitale.” Se a questo aggiungiamo la sete di denaro che caratterizza l’agire della maggior parte degli umani dell’età contemporanea il disastro non è lontano dal prefigurarsi. Vi risulta che vi siano corsi di laurea in medicina che affrontano questi argomenti e che preparano gli studenti per evitare che cadano in questi pericoli? A me no, se qualcuno ha notizie diverse mi rincuori. L’importante è saper manovrare la macchina, diventare meccanici del corpo, e soprattutto fare a gara tra università a chi innova di più che, tradotto, significa a chi usa più tecnologia.

Massimiliano Capalbo

Dovrebbe esser ovvio per tutti che un corpo fortemente medicalizzato (medicine, interventi chirurgici, vaccini per ogni problema, protesi …) è meno sano e dunque più fragile di un corpo scarsamente medicalizzato che ancora conserva e difende le proprie naturali difese e risorse. Nel corso dell’ultimo secolo si son delineate come due categorie di esseri umani che oggi sono di fronte a un’accelerazione e divaricazione della loro evoluzione. I primi vanno verso la completa meccanizzazione del loro organismo corporeo, da due secoli ormai concepito come macchina, l’intelligenza artificiale darà loro l’opportunità di integrare capacità umane con capacità artificiali. L’incontro tra uomo e macchina in questo caso produrrà un assorbimento delle qualità umane dentro la macchina, qualcosa che somiglia a una forma sottile di “mineralizzazione” dell’essere umano.
I secondi si troveranno di fronte alla necessità di intensificare la difesa delle qualità umane più intrinseche, cioè saranno indotti a intensificare quella vitalità innata, quella forza di vita che noi vediamo manifestarsi visibilmente nella crescita delle piante; si tratta di quello che antiche discipline chiamano “corpo eterico”.
Dal momento che l’incontro con le macchine non è eludibile (è un destino), questa parte di umanità dovrà cercare uno sviluppo tecnologico compatibile con la forza di vita, “eterica”, ovvero uno sviluppo tecnologico che, anziché ridurre l’uomo a macchina, porti alla macchina la forza eterica umana.
Alcuni inizi avveniristici ci sono stati nell’ottocento. Siamo agli inizi di un’evoluzione di lungo periodo. Secoli.
Il lungo periodo è oggi assente dai pensieri della maggior parte di noi esseri umani, ma resta il fatto che solo nella prospettiva del lungo periodo si arriva a comprendere e anche ad accettare le cose “incomprensibili” che accadono ai nostri giorni. Keynes diceva: “nel lungo periodo siamo tutti morti” e quindi è bene non occuparci dei problemi che sorgeranno in futuro.
E’ ora di chiedersi se proprio questo pensiero, oggi divenuto di senso comune e ripetuto anche dalla massaia di Voghera, non sia all’origine dei nostri guai. E se nel lungo periodo fossimo tutti vivi?
Non solo nel senso banale e scolastico che nel futuro ci saranno tracce della nostra vita attuale, ma nel senso più pregnante che la coscienza umana individuale non perisce e a dirlo oggi non sono le vecchie religioni “mineralizzate”, ma uno scienziato premio Nobel per la fisica. E’ un pensiero assurdo per il senso comune, ma quando mai il senso comune ha orientato il mondo?

Giuliano Buselli