L’immagine dei leader(?) del G20 che lanciano la monetina nella fontana di Trevi è emblematica della consapevolezza e della padronanza della situazione che possiedono in questo momento i rappresentanti delle nazioni economicamente più sviluppate. Non hanno la più pallida idea di cosa fare ma continuano ad ostentare sicurezza e la falsa cronaca dei media, che ci racconta di un successo, nasconde in realtà solo l’ennesimo fallimento. La fotografia immortala i 20 grandi impotenti che governano le nostre società. Se i problemi non fossero gravi e urgenti ci sarebbe da ridere ma così non è. Al termine della kermesse, i paesi che hanno preso parte al G20 riconoscono:
1. l’urgenza di contenere il riscaldamento globale entro 1,5 gradi. Questa è la dichiarazione più divertente e allo stesso tempo arrogante che un essere umano possa fare oggi.  Siccome sono abituati a usare le tecnologie per risolvere i problemi pensano che si tratti di trovare la manopola del termostato per regolare la temperatura del pianeta. Pensare di essere in grado di modificare il clima del pianeta entro un lasso di tempo (per noi umani ragionevole) somiglia un pò allo slogan dell’Expo di Milano (nutrire il pianeta). Duecento anni di inquinamento non si risolvono in pochi decenni, le conseguenze devono ancora materializzarsi, non abbiamo capito nulla. Le false credenze sono sempre quelle degli altri, la scienza viene usata come arma per colpire chi non è d’accordo, quando i grandi della Terra raccontano favole bisogna credergli, in questo caso le scienze naturali, la fisica e la chimica possono essere ignorate;
2. di dover raggiungere l’obiettivo emissioni zero entro il 2050. In buona sostanza la Cina e l’India e altri paesi in forte crescita hanno diritto di inquinare come abbiamo fatto noi fino ad oggi, per qualche altro decennio, non sono la Polonia o il Congo non possiamo fare la voce grossa per convincerle a cambiare atteggiamento, l’Occidente ormai conta sempre meno. Il problema è che forse nel 2050 sarà troppo tardi ma questo non conta, rimandare è l’azione più gettonata tra i politici;
3. di dover continuare a colonizzare i paesi in via di sviluppo. Questa “via di sviluppo” sembra essere senza fine, anche perché se dovessero raggiungere i nostri livelli di benessere si scatenerebbe la terza guerra mondiale e, quindi, attraverso l’elargizione di ulteriori finanziamenti, (che andranno nelle casse delle imprese dei paesi industrializzati), pensano di continuare a comprare la compiacenza dei governi di quei paesi come hanno fatto fino ad oggi, continuando a usarli come discariche del mondo industrializzato;
4. di dover continuare a devastare l’ambiente attraverso l’estrazione non più di carbone ma di altre risorse del pianeta (cobalto, idrossido di litio etc.) che servono per le auto elettiche, gli smartphone e le altre diavolerie utili ad accrescere il controllo delle popolazioni in maniera “democratica” e soprattutto volontaria;
I 20 grandi metteranno in atto, si legge: “azioni significative ed efficaci tenendo conto dei diversi approcci, attraverso lo sviluppo di chiari percorsi nazionali che allineino l’ambizione a lungo termine con obiettivi a breve e medio termine”. Dichiarazioni vuote, di circostanza, ricche di frasi d’effetto e di buonismo che servono a coprire la triste verità.
Chi può cominci a darsi da fare per mettersi al riparo dallo tsunami che ci attende. L’ho già scritto e continuo a riscriverlo, se pensate che ci salveremo per iniziativa dei 20 impotenti andrete incontro ad un amaro risveglio. Qui non si tratta di cambiare il destino del pianeta (cosa di cui non abbiamo il potere) ma le nostre abitudini quotidiane e il nostro stile di vita.
Ormai questi eventi sono diventati occasioni mondane per i leader di accrescere (come fanno le stelle del cinema o della musica) la propria fama e il proprio appeal tra i cittadini e tra di loro. Le passerelle, le strette di mano, il gossip, vengono privilegiati alla sostanza delle decisioni. E’ un’occasione per imporre il proprio ego sugli altri e questa volta è stato il turno dell’ego di Draghi. Dopo l’uscita di scena della Merkel, il mago della finanza italiano è diventato il nuovo cavallo sul quale scommettere. Anche perché quelli che ancora ci ostiniamo a chiamare politici sono soltanto degli smistatori di denaro pubblico prodotto dalle multinazionali e quindi il buon Mario non dovrebbe trovare grandi differenze tra il ruolo di banchiere che ricopriva prima e quello di presidente del consiglio che ricopre oggi.

Massimiliano Capalbo

Ore 10, gli studenti dell’Università di Bologna no-green pass hanno organizzato davanti alla casa di Carducci una lezione all’aperto su “Filologia, anarchia, libertà”. Parla il prof. Francesco Benozzo docente di filologia all’Università di Bologna, sospeso dall’insegnamento e dal percepire il relativo stipendio perchè non ha il green pass. Due ore di alta cultura, al sole e nel silenzio della piazza, tra filologia, filosofia, antropologia, storia, letteratura. Ci sono i ragazzi e ci sono anche tanti cittadini che sono venuti appositamente o che transitavano nei paraggi.
La lezione ruota attorno al concetto di libertà: non va vista, dice Benozzo, come un affrancamento da vincoli esterni, un’assenza di vincoli, la libertà è congenita all’essere umano, ha a che fare con ciò che è originario. Aspirare alla libertà è quindi una nostalgia di qualcosa che abbiamo già dentro e che pertanto nessuno ci può togliere.
Nel corso della lezione all’aperto il prof. Benozzo è ricorso a un carattere della semiotica per spiegare il processo di accettazione da parte della maggior parte dei cittadini della narrazione dominante sulla pandemia: la “sospensione dell’incredulità” o del dubbio (suspension of disbelief) di cui per primo parlò, nel 1817, il poeta S. T. Coleridge. Il lettore o lo spettatore mettono da parte il proprio scetticismo o dubbio circa lo svolgimento di una storia o di una rappresentazione teatrale e accettano di credere a ciò che gli viene raccontato, sospendono le proprie facoltà critiche per ignorare le incongruenze del racconto e godere così pienamente dell’opera letteraria o dello spettacolo.
Se all’epoca di Coleridge il fenomeno poteva riguardare la ristretta cerchia di lettori e spettatori di teatro è evidente che due secoli di diffusione su scala planetaria di spettacoli cinematografici, televisivi, pubblicitari ha creato una massiccia propensione a sospendere l’incredulità e ad accettare le narrazioni dominanti, ci si sente confortati e accolti in una zona di sicurezza.
Grandi fenomeni storici di massa, quali fascismo, comunismo e anche alcuni periodi delle democrazie, sono stati affetti da più o meno gravi forme di “sospensione dell’incredulità”. Vivere di media porta a sospendere il proprio rapporto con la vita e ad affidarsi al racconto che viene da fuori.
Per uscire da questa sospensione occorre un racconto che venga da dentro, fare esperienza del reale e poterlo così raccontare in proprio. Più persone racconteranno in proprio il tempo che viviamo, più entrerà in crisi la narrazione dominante affidata ai media.
Alla lezione hanno fatto seguito domande e risposte e, alla fine, la sensazione è di aver assistito più che a una forma originale di protesta, a un assaggio di quello che diventerà la cultura nei prossimi decenni, aperta, luminosa, coraggiosa.

Giuliano Buselli

Mancano pochi giorni alla liberazione della Calabria e con il rientro degli emigrati nelle varie catene di montaggio della società rientrerà anche l’ondata emotiva che nelle scorse settimane ha riguardato gli incendi boschivi. I numerosi leoni da tastiera prodighi di ricette e consigli su come evitare che tutto questo possa ri-accadere, torneranno nei loro luoghi di residenza per riaffacciarsi alla prossima emergenza. Sul territorio resteranno quelli che ci credono davvero, oltre che la cenere, fino alla prossima primavera quando, dopo le piogge invernali e il freddo, la natura rinascerà dimostrando maggiore fiducia nel futuro e capacità di vivere in simbiosi rispetto agli esseri umani.
Gli incendi hanno messo a nudo tutto l’amore che abbiamo riversato nei boschi prima che prendessero fuoco: bottiglie di vetro, plastica, amianto, materiale di risulta, sono ciò che rimane visibile dopo il passaggio del fuoco. I luoghi percorsi dagli incendi sono una cartina di tornasole della nostra “civiltà” e di quanto i boschi fossero preziosi per noi. Non ho mai visto un tesoro non sottoposto a vigilanza. Telecamere, guardie giurate, sistemi di allarme, i vari luoghi che riteniamo preziosi, come le banche, ad esempio, non rischiano di scomparire, sono troppi gli interessi che ne proteggono e garantiscono la sopravvivenza. Così come per gli incendi.
Prendete un foglio di carta, dividetelo in due con una linea, a sinistra fate un elenco di chi ha interesse ad avere dei boschi bruciati e a destra chi ha interesse ad averli integri, e vi renderete conto che finché i primi saranno superiori ai secondi registreremo incendi. La nostra è una società mossa da interessi, prevalentemente economici, e pertanto votata all’estinzione. Se vogliamo salvare la natura nel breve periodo occorre far comprendere e comunicare l’interesse per lei. Decenni di de-formazione scolastica, volta a creare consumatori, robottini da inserire nelle varie catene di montaggio della società, hanno prodotto l’umanità di oggi incapace, nella maggioranza dei casi, di considerarsi parte della natura come invece avveniva in passato. A scuola non si insegna a saper stare al mondo ma a diventare meccanismi di un sistema che corre sempre più velocemente verso la catastrofe. Per essere compresi da questa umanità occorre utilizzare i suoi frame cognitivi (cornici mentali che creano la nostra visione del mondo e di conseguenza le nostre azioni) altrimenti è solo un dialogo tra sordi. L’unico linguaggio che l’uomo dell’antropocene conosce è quello dell’economia, del profitto, del consumo. Gli spazi naturali possono essere un’occasione per creare economia, per riavvicinare l’uomo alla natura, per fermare l’avanzata della desertificazione (non solo ambientale) che da qui a breve diverrà l’emergenza principale dell’umanità, per far comprendere che le piante sono l’unico alleato che può consentirci di affrontare e superare le prossime crisi. Nel breve periodo questa è l’unica strategia, ci sarà tempo per il romanticismo e la bellezza, ci vorranno altre generazioni.
Viviamo un’epoca di caos e di paradossi. Le stesse persone che oggi “credono” fermamente nella scienza così come un tempo credevano nella religione, sembrano contemporaneamente impermeabili alle conseguenze che le sue scoperte dovrebbero generare. La fisica quantistica ha rivoluzionato i concetti di spazio, di tempo e di realtà da oltre un secolo e mezzo ma noi continuiamo ad avere un approccio cartesiano e newtoniano alla vita; i naturalisti hanno intuito, da oltre due secoli, che le piante sono esseri estremamente intelligenti ma noi continuiamo a trattarle come oggetti. Ci comportiamo con la scienza proprio come ci comportavamo con la religione, tutta forma e nessuna sostanza. Un’arma da utilizzare ideologicamente contro l’altro, all’occorrenza.
Le piante sono ormai riconosciute dalla scienza come esseri viventi intelligenti, sensibili e autonomi. All’orizzonte si intravede la necessità di un’estensione dei diritti (dopo l’uomo e gli animali) anche ad esse. Ma il passaggio culturale è enorme, i cambiamenti richiedono tempo, molto tempo. Alcune nazioni sudamericane hanno già riconosciuto nelle loro costituzioni la natura come soggetto di e con diritti. Ma chi dovrebbe farli valere questi diritti? Chi saranno i tutori di questi diritti? Chi curerà i loro interessi? Spetta a ciascuno di noi. Chiunque abbia già compreso l’urgenza e l’importanza di preservare la natura che ci circonda ha già agito, si è auto-nominato tutore, ha investito risorse proprie (senza aspettare le istituzioni) per creare oasi, spazi che possano garantire un futuro alla natura e un presente a se stessi e agli umani che ancora non hanno compreso. Chi crede che la natura sia veramente un tesoro agisce e rischia in proprio, chi non ci crede produce chiacchiere che lasciano sul terreno solo cenere.

Massimiliano Capalbo